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Texas, esecuzione rinviata per motivi religiosi

Il conforto al condannato prevede anche il contatto fisico

Lo scorso 8 settembre, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha sospeso in extremis l’esecuzione di John Henry Ramirez, condannato a morire con la somministrazione di un’iniezione letale nel penitenziario di Huntsville, in Texas. La sentenza è stata sospesa a seguito della presentazione di un ricorso di urgenza al massimo organo giurisdizionale, dopo che i precedenti ricorsi erano stati respinti sia in prima istanza sia in appello.

Ramirez, che nel 2004 sotto l’effetto della droga aveva ucciso con parecchie coltellate un dipendente di un piccolo supermercato durante un tentativo di rapina, da qualche anno è assistito spiritualmente in carcere dal pastore battista Dana Moore, della Second Baptist Church, che ne ha seguito il percorso di cambiamento, una vera e propria metànoia secondo il rev. Moore, il quale ha dichiarato a Christianity Today che il condannato ha incontrato Cristo e questo evento l’ha profondamente cambiato. Questo cambiamento profondo, che ha portato Ramirez a trovare la fede, è stato alla base della richiesta di sospensione dell’esecuzione, richiedendo che essa dovesse avvenire con la presenza fisica del pastore per garantire l’accompagnamento del condannato nel passaggio dalla vita alla morte, imponendogli le mani sul capo e pregando insieme ad alta voce, come previsto dalla liturgia di accompagnamento alla morte della congregazione alla quale appartiene.

Le regole vigenti nello Stato del Texas pur prevedendo la presenza di un assistente spirituale nello stesso locale, per motivi di sicurezza, vietano contatti fisici con il condannato e la recitazione di preghiere ad alta voce nel corso dell’esecuzione. Il legale di Ramirez ha fondato il suo ricorso d’urgenza sulla supposta violazione del Primo Emendamento della Costituzione, perché la procedura di esecuzione prevista in Texas priverebbe Ramirez della sua libertà religiosa, di fatto non permettendogli di praticare la propria fede e negandogli il conforto religioso nel momento in cui esso è più necessario, quello del passaggio cruciale tra la vita e la morte. La Corte ha accolto il ricorso di urgenza sospendendo l’esecuzione della sentenza e, nell’arco del paio di mesi previsti prima della nuova udienza calendarizzata per l’inizio del mese di novembre, dovrà emettere un verdetto che farà giurisprudenza per future situazioni simili chiarendo, si spera definitivamente, quali sono i diritti di un condannato a morte correlati alle sue scelte di fede.

È un tema spinoso, che negli ultimi anni ha fatto molto discutere, a partire da una sentenza della stessa Corte Suprema del 2018 che ha rifiutato di bloccare l’esecuzione di un detenuto di fede islamica che reclamava la presenza di un imam al suo fianco nella stanza della morte, salvo prendere l’orientamento opposto l’anno successivo, quando la stessa Corte ha invece sospeso la somministrazione dell’iniezione letale a un altro condannato dallo Stato del Texas che voleva essere accompagnato nei suoi ultimi istanti da un consigliere spirituale buddista. Ci piacerebbe immaginare che, in un futuro prossimo, venga meno la necessità che la Corte Suprema sia chiamata a pronunciarsi su questa materia perché anche gli ultimi 15 Stati della più importante democrazia del mondo nei quali si applica ancora la pena capitale, la cui gran parte si trova proprio nella cosiddetta Bible Belt dove ancora nel 2019 e in sette diversi Stati sono state eseguite ben 22 esecuzioni, abbandonino questo anacronistico retaggio di giustizia retributiva. Speriamo che questo non resti soltanto un pensiero utopistico.

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