Ambiente: aree protette ma popoli a rischio
07 settembre 2021
Il diritto dei popoli indigeni di vivere sulla loro terra garantisce anche la prosperità dell’intero ecosistema. Superare l’attuale idea di conservazione è la missione di Survival International
Trasformare il 30% del pianeta in “Aree Protette” entro il 2030. Leader politici, stati, agenzie governative, dirigenti d’azienda, organizzazioni internazionali e nazionali si sono trovate a Marsiglia a parlarne durante il World Conservation Congress di IUCN, Unione internazionale per la conservazione della natura
Sembrerebbe trattarsi di un passo politico verso il dispiegamento di forze a favore della giustizia ecologica e climatica, ma una forte critica arriva da Survival International, movimento mondiale per la salvaguardia delle popolazioni indigene. Ma non solo, le loro posizioni sono recentemente state sostenute anche dal Relatore Speciale ONU per i popoli indigeni David Boyd. In un suo documento di policy sostiene che il raggiungimento degli obiettivi ambientali richiede un drastico allontanamento dal solito modo di fare conservazione e che l’attuazione di approcci di conservazione basati sui diritti è sia un obbligo legale ai sensi del diritto internazionale sia la strategia di conservazione più equa, efficace ed efficiente che si ha a disposizione per proteggere la biodiversità nella scala necessaria a porre fine all’attuale crisi globale.
Da anni Survival International si batte per lo stesso tema; la sua storia infatti comincia 52 anni fa in Inghilterra, per iniziativa di un piccolo gruppo di persone che dopo aver letto del genocidio degli indigeni in corso nell’Amazzonia brasiliana decise di riunirsi per aiutare i popoli indigeni di tutto il mondo a difendere i loro diritti a vivere sulle proprie terre e il diritto all’autodeterminazione. Survival vuole indagare sulle atrocità commesse in tal senso e informarne le Nazioni Unite e ad altri organismi internazionali, offrendo anche assistenza legale e finanziando progetti medici, facendo ricerca, lanciando campagne e organizzando proteste.
L’associazione, subito prima del congresso, ne ha organizzato uno alternativo chiamato “Our land, Our nature” insieme ad altre associazioni come Minority Rights Group e Rainforest Foundation UK per denunciare il modello colonialista e razzista con cui si intende proteggere e conservare il pianeta.
Ce ne parla Francesca Casella, direttrice per l’Italia di Survival International.
Innanzitutto, cosa intendete per conservazione?
«Con conservazione della natura ci si riferisce a tutte quelle misure e interventi messi in atto per conservare specie ed ecosistemi all'interno di parchi e aree protette. La casistica è infinita ma esiste un modello particolare di conservazione, definita conservazione-fortezza, che è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani e affonda le sue radici nel razzismo e nel colonialismo. Questo modello è fondato su un concetto fuorviante di “wilderness”, ovvero sull’esistenza di natura selvaggia e incontaminata, e ha iniziato a svilupparsi 150 anni fa a Yosemite, negli USA. Sin dalla sua concezione, ha implicato lo sfratto di tutti gli abitanti originari del territorio ai fini di creare “Aree Protette” prive di qualsiasi presenza umana. Oggi è molto diffuso specialmente in Africa e Asia, dove molte Aree Protette vengono realizzate attraverso l’appropriazione di vaste aree di terra, la loro recinzione, lo sfratto degli abitanti originari, la violazione dei loro diritti e l’imposizione di brutali controlli militari. Oltre ad avere conseguenze drammatiche a livello umano, numerose evidenze dimostrano che questo modello di conservazione è fallimentare anche dal punto di vista della protezione ambientale perché finisce per alienarsi proprio i suoi migliori alleati: i popoli indigeni.
In realtà, infatti, la “wilderness”, non esiste se non nell’immaginario collettivo: diversità umana e biodiversità vanno di pari passo».
Perchè si è pensato che allontanare la presenza umana fosse in qualche modo vantaggioso?
«Chi sostiene gli sfratti violenti dei popoli indigeni dalle aree protette, spesso e paradossalmente vi incoraggia altri tipi di presenza umana. Molte aree protette aprono per esempio le porte al turismo di massa, e spesso vi si praticano caccia ai trofei, attività minerarie e taglio del legno. Sotto questo modello di conservazione, i locali non possono cacciare per sfamarsi, ma gli stranieri possono cacciare per sport. L’indotto economico e i finanziamenti che ruotano intorno all’industria della conservazione sono enormi. Pensiamo ad esempio alle cosiddette “Soluzioni Basate sulla Natura”… Il termine si riferisce all’utilizzo di meccanismi come piantare alberi, ripristinare ecosistemi e preservare foreste allo scopo di assorbire anidride carbonica (CO2) dall’atmosfera. L’idea è venduta come un’opportunità per contrastare i cambiamenti climatici. Ma, in realtà, è diventata un modo per evitare di affrontare la crisi perché non implica una riduzione dell’utilizzo dei combustibili fossili, né una diminuzione dello sfruttamento delle risorse naturali per profitto e del sovraconsumo crescente, trainato dal Nord globale – riduzioni che costituiscono, invece, la sola vera risposta concreta al problema. Oltre alle aziende e ai governi, anche il mondo della conservazione promuove fortemente le “Soluzioni Basate sulla Natura” perché può ottenere enormi profitti vendendo i crediti di carbonio delle “sue” Aree Protette per finanziarne di nuove».
A cosa vanni incontro le comunità allontanate?
«Per i popoli indigeni è la tragedia. Una volta cacciati dalle loro terre, perdono l’autosufficienza: devono cambiare stile di vita e trasferirsi altrove, e il legame con i loro territori e i mezzi di sostentamento viene reciso. Se prima prosperavano, spesso dopo si trovano a vivere di elemosina o aiuti governativi nelle aree di reinsediamento. Poche comunità sono disposte a rinunciare volontariamente a tutto il loro mondo e, quando resistono, le conseguenze sono gravi. Ovunque i popoli indigeni denunciano pestaggi, arresti arbitrari, persecuzioni e torture».
Ci può fare qualche esempio?
«I popoli del bacino del Congo, come i Baka, subiscono gravi abusi per mano dei guardaparco finanziati da grandi organizzazioni per la conservazione, mentre nel Parco Nazionale di Kaziranga, in India, vige la famigerata politica dello sparare a vista contro chiunque sia solo sospettato di bracconaggio, nell’immunità. Al suo interno, decine di persone sono state uccise in modo extragiudiziario solo negli ultimi anni - molti erano indigeni innocenti - e un guardaparco ha sparato e reso permanentemente invalido persino un bambino indigeno di sette anni. Il governo indiano sta sfrattando i popoli indigeni dalle riserve delle tigri, contro la legge nazionale e internazionale, con lo scopo dichiarato di proteggere il felino, mentre sono proprio le tribù a venerare la tigre come una divinità e a prendersi cura dei loro ambienti meglio di chiunque altro. In una riserva delle tigri in cui una tribù si è vista riconoscere il diritto a restare, il numero dei felini è aumentato rapidamente, raddoppiando in soli quattro anni…».