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Dialoghi letterari tra fede e potere

Una situazione drammatica simile in due testi di Flannery O' Connor e Bernanos

Nella progressiva riscoperta dei romanzi e racconti (ma anche dei saggi) di Flannery O’ Connor (1925-1964), uno degli argomenti più frequentemente trattati è l’ispirazione della scrittrice di Savannah (Georgia), dalla vita difficile per le sempre precarie condizioni di salute, che la videro poi soccombere precocemente a varie patologie. Un’ispirazione che non è solo quella degli Stati del Sud conservatore, ma è anche della letteratura europea di ispirazione cattolica, in particolare quella francese, i cui nomi di riferimento sono François Mauriac, Julien Greene, Paul Claudel, e soprattutto Georges Bernanos. «Molta della mia narrativa – scriveva O’ Connor– trae il suo carattere da un ragionevole uso dell’irragionevole (...); tuttavia gli assunti posti a fondamento sono quelli dei principali misteri cristiani». E ancora, consapevole delle obiezioni che questa base di partenza le provocava, «La fede, nel mio caso, almeno, è il motore che aziona la percezione» (Nel territorio del diavolo. Sul mistero di scrivere, Minimum Fax, 2010). Ribadiva poi in un altro suo scritto: «Lo scrittore e il credente (...) hanno molti tratti in comune – diffidenza dell’astratto, rispetto dei limiti, desiderio di penetrare la superficie della realtà e trovare in ogni cosa lo spirito che la rende tale e tiene insieme il mondo» (Il volto incompiuto. Saggi e lettere sul mestiere di scrivere, a cura di Antonio Spadaro, Rizzoli, 2011).

Così spicca in questo 2021 la raccolta di racconti Un brav’uomo è difficile da trovare*: come al solito i testi sono ambientati in ambiente rurale, latifondista, segregazionista e legato al mondo in cui i neri americani passavano da una esplicita schiavitù a una non altrettanto definita condizione in cui i “padroni” guardano dall’alto in basso i loro servitori, ma non ne possono fare a meno, riconoscono la loro capacità di “stare al mondo”, ma non li ammetterebbero mai alla loro tavola. Rimpianto, malinconia e senso del grottesco permeano queste storie, fatte di una violenza capace di esplodere all’improvviso e di dare una svolta, terribile a volte, ai rapporti di forza (estremi) e ai sentimenti (soffocati) dei personaggi.

Se unanimi sono gli elogi per la capacità di scrittura di O’ Connor – scrittura stringata, essenziale, fondamentale nella storia delle short stories all’americana – non mi è capitato invece di vedere fra le recensioni un riferimento invece piuttosto esplicito, se non un vero e proprio calco, che l’autrice compie rispetto al Diario di un curato di campagna di Bernanos (1936). Il racconto è «Il profugo», ambientato, come molti altri, in una sorta di fattoria con ampio appezzamento terriero; come altre volte la fattoria è gestita da una donna energica, non più giovane – in questo caso si chiama Mrs. McIntyre – che al proprio servizio ha dei neri (qui detti “negri”) e anche dei profughi di altra provenienza, in particolare un polacco, di cui lei ovviamente non si fida. È, anzi, decisa a allontanarlo, ma in questo frangente si confida con un uomo di chiesa (il testo dice “il prete”). Il rapporto fra loro è curioso, perché la donna ha già deciso, e l’ecclesiastico si limita ad annuire.

Un’interlocuzione simile avviene nel capolavoro di Bernanos, poi portato sullo schermo da Robert Bresson nel 1950. Qui la donna è addirittura una contessa, la moglie, tradita, dell’uomo più temuto del paese. L’analogia (accompagnata da sensibili differenze, altrimenti sarebbe una copia) sta nel fatto che nel romanzo, come nel racconto di O’ Connor, una donna che ha in mano la conduzione della casa è a colloquio con un uomo di chiesa: un dialogo impalpabile e ineffabile nel «Profugo», e ricchissimo di presupposti teologici nel Diario. Là un prete di sicuro mestiere, capace di non agitarsi di fronte alle lagnanze della possidente terriera; qui un giovane incerto sacerdote, dal fisico minato dall’alcol e dalla malattia, dal disagio esistenziale e dai turbamenti di chi discerne chiaramente il proprio rapporto con Dio, ma non altrettanto quello con i propri parrocchiani. Allora, se in O’ Connor «il prete parlava da dieci minuti del Purgatorio, mentre Mrs McIntyre lo guardava, seduta sulla poltrona di fronte, strizzando furiosamente gli occhi...»; «“Senta”, disse, “io non sono teologica, sono pratica! Voglio parlare di questioni pratiche!», in Bernanos la visita di “cura d’anime” si risolve in un serratissimo confronto teologico, drammatico, gravato del dramma che la contessa vive da anni: la morte di un figlio ancora bambino, e, in sovrappiù, le infedeltà del marito e il cinismo dell’altra figlia. In questo dialogo lungo ed estenuante (la contessa ne morirà, infatti, poche ore dopo, ma pacificata nell’intimo della propria coscienza), ordito con l’abilità dell’autore che nel 1949 scriverà il dramma teatrale i Dialoghi delle carmelitane, altro capolavoro, si va addirittura all’idea di Dio. «Non l’abbiamo inventato noi l’amore – dice il curato –: ha il suo ordine, la sua legge». «Dio ne è padrone», sembra confermare la contessa: al che il curato ribatte: «Non è il padrone dell’amore, è l’amore stesso». Questo è il momento in cui forse una comprensione fra l’ecclesiastico e la donna è possibile, poi il tono si fa più aspro da parte di lei, che però interiormente capisce...

Mrs. McIntyre, invece, come peraltro onestamente ammette, non recede dalle proprie posizioni di attivismo imprenditoriale rurale, un po’ razzista. Il prete che è con lei pare esporre le sue considerazioni sapendo di non essere ascoltato, ed è tranquillo così: forse non ha mai chiesto niente di più alla vita. Il giovane curato di Bernanos, arrivato nella sua prima parrocchia con aspettative presto frustrate, anima inquietissima, fa breccia invece nella dura scorza di una donna resa insensibile dal dolore. Ma ci sarà stato un dolore precedente di Mrs. McIntyre? Che cosa l’avrà resa così decisa e implacabile? Flannery O’ Connor si concentra sulla sua arte di governare la fattoria, far filare i dipendenti e liquidare i profughi. Una donna che pare destinata a restare al proprio posto: parabola mesta sulla rendita di posizione dei potenti e sulla fragilità umanissima dei finti potenti, quelli che – sappiamo noi – Dio ha sempre ridimensionato. Innesco narrativo simile, diversissimi gli stili e gli esiti, ma con una stessa inquietudine che, come dice O’ Connor, anima scrittori e credenti.

* F. O’ Connor, Un brav’uomo è difficile da trovare. Con una nota di Joyce Carol Oates. Roma, Minimum Fax, 2021, pp. 285, euro 17,00.

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