Il Kosovo e quella bandiera negata
08 aprile 2021
A volte lo sport si propone come possibile “apripista” rispetto ai tempi della politica, ma non mancano casi contrari come dimostrano i recenti episodi nella partita Spagna-Kosovo
La prima volta che misi piede come volontario in Kosovo era l’agosto del 2012. Mi trovavo a Gjakova, una delle città più colpite dalla guerra che alla fine degli anni Novanta rappresentò l’ultimo capitolo della disgregazione della Jugoslavia. Il centro, con quelle che erano un tempo belle botteghe in legno, portava ancora i segni degli incendi appiccati dall’esercito serbo in fuga.
Sulla porta della stanza che mi ospitava era rimasto inciso il nome del generale che l’aveva occupata e proprio nelle case era sconsigliato bere l’acqua proveniente dal rubinetto: troppo alto il rischio di contaminazione a causa dei bombardamenti all’uranio impoverito. Tutto era povertà, polvere e malinconia.
Eppure, nei dehors dei bar, c’era una cosa che riusciva a portare gioia: le immagini delle Olimpiadi che giungevano da Londra e davanti alle quali i kosovari si accalcavano. Ridevano e gioivano anche se tra le bandiere che avevano sfilato nella cerimonia inaugurale mancava proprio la loro: l’indipendenza era stata proclamata da appena quattro anni, il governo mondiale dello sport non aveva ancora riconosciuto Pristina e i suoi atleti potevano gareggiare esclusivamente con l’Albania.
C’era in quei giorni un po’ di delusione ma anche la speranza che quella ferita sarebbe stata presto sanata. Così, per chi conosce quelle terre, fa un certo effetto ma comunque non sorprende verificare come la situazione abbia fatto da allora pochi passi in avanti. I recenti e goffi tentativi della Spagna di negare l’esistenza del Kosovo chiedendo ai suoi calciatori e giornalisti di non citarlo nelle interviste, raccontano come il riconoscimento sportivo del paese sia tutt’ora parziale e incompleto. Uefa e Fifa hanno sì accolto la nazionale di Pristina, ma l’ostilità delle Serbia, della Russia e di tutti le nazioni che hanno crisi indipendentiste aperte come la Spagna, blocca il processo.
Questo, del resto, non è che lo specchio della politica internazionale che ha lasciato scivolare il Kosovo in un cono d’ombra dal quale non riesce a uscire se non in maniera episodica. Poco o nulla viene fatto per quella che anche le statistiche più recenti hanno classificato come l’area più povera del continente. Il Kosovo, come quasi tutta la regione balcanica, nell’ultimo ventennio si è svuotato di abitanti per trasformarsi in una zona di transito, di donne, uomini e spesso di traffici illeciti. La classe politica locale ha più volte mostrato la sua inadeguatezza facendo crescere corruzione e povertà e allontanandosi dal sogno di Ibrahim Rugova. Una tenue speranza si è aperta proprio in questi giorni con l’elezione alla presidenza di Vjosa Osmani, ma è presto per giudicare se le promesse di spazzare via la corruzione saranno rispettate.
Il disinteresse da parte della comunità internazionale per il paese stride con l’attivismo che accompagnò i giorni della guerra. Nel 1999 furono proprio le immagini dei profughi in fuga a convincere la Nato della necessità dell’intervento militare contro Belgrado che vide, non senza aspre polemiche, il coinvolgimento diretto dell’Italia. Giorni di furore e di passione ora lontani, mentre il Kosovo si dibatte nei suoi problemi e in dodici anni non ha neppure guadagnato la piena legittimità a suonare il proprio inno in uno stadio.
Così, ancora una volta, tocca allo sport accendersi come una spia per indicare l’esistenza di un problema più ampio che riguarda la politica e la società. Nella storia è accaduto più di una volta e proprio nella ex Jugoslavia il conflitto fu in qualche maniera anticipato dalla rissa che scoppiò nel 1990 durante la partita tra la Stella Rossa di Belgrado e la Dinamo Zagabria. E non è stato un caso nemmeno che le bande paramilitari protagoniste del conflitto balcanico abbiano reclutato i propri adepti tra la tifoseria organizzata. Tutt’ora, in una nazione divisa come la Bosnia Erzegovina, le squadre di pallone sono spesso elette a simbolo delle diverse comunità religiose e il significato di alcune partite va ben oltre a quello del campo.
Ma poi ci sono anche esempi diversi perché se è vero tutto questo, è vero anche che lo sport ha saputo essere in altri contesti un fattore decisivo di coesione. Molti di noi hanno in mente le scene di Invictus, il film che racconta come Nelson Mandela seppe sfruttare i successi della nazionale di rugby nel processo di riconciliazione post-apartheid. L’immagine di “Madiba” che consegna il titolo di campione del mondo al capitano bianco della squadra sudafricana Jacobus François Pienaar è certo una delle più forti e simboliche che la storia dello sport ricordi.
L’esempio di quello che può fare una bella politica che non sceglie di nascondersi dietro a una bandiera negata.