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Da museo a moschea, cambia l’anima di Ayasofya

L’analisi di Chiara Maritato (Università di Torino) intorno a un gesto carico di valore politico e simbolico in una città, ancor più in una città come Istanbul

Venerdì 10 luglio il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha firmato un decreto che ordina la riconversione in moschea di Ayasofya, uno tra i luoghi più simbolici di Istanbul, che dal 1934 è un museo.

Questo decreto, con cui il governo turco trasferisce il controllo dell’edificio al Diyanet, il direttorato degli Affari religiosi, è arrivato dopo un’attesa sentenza del Consiglio di Stato turco, che ha stabilito l’illegittimità della decisione con cui nel 1934 il primo presidente turco, Mustafa Kemal “Atatürk”, aveva trasformato la struttura in museo, spogliandola del suo valore religioso.

La storia di questa riconversione non nasce negli ultimi giorni, ma ha radici profonde, come spiega Chiara Maritato, assegnista di ricerca del dipartimento di culture, politiche e società dell’Università di Torino. «Si tratta – racconta - di una decisione che è avvenuta in maniera molto rapida ma che in realtà era nell’aria da tempo. Lo era nei discorsi, nelle narrazioni, nelle promesse elettorali già dai primi anni Duemila, con l’arrivo al potere dell’Akp».

C’è comunque un cambio di passo. Come ci siamo arrivati?

«Fino all’anno scorso lo stesso Erdoğan si era dimostrato cauto nell’aprire la moschea. C’è la registrazione di un suo intervento in merito in cui afferma che, siccome di fronte ad Ayasofya c’è una moschea enorme, la Sultanahmet camii, conosciuta come Moschea Blu, forse prima bisogna riempire questa moschea e poi possiamo aprire Ayasofya. Del resto le moschee a Istanbul sono 3.269 e diventeranno 3.270, mentre in tutta la Turchia sono 84.685. Il fatto che esista di fronte ad Ayasofya una moschea enorme visitata da tantissimi turisti, non credo dallo stesso numero di fedeli, che di solito preferiscono moschee meno affollate, fa sì che sicuramente questa decisione sia politica. C’è da chiedersi cosa sia successo in questo anno che ha fatto sì che Erdoğan cambiasse il suo avviso e che in qualche modo spingesse per un’accelerazione».

Quale messaggio manda questo gesto alla politica e alla società turche?

«L’apertura risuona in modo chiaro su due aspetti: il primo è nei confronti del nazionalismo turco, un’ideologia che aleggia su un po’ tutto lo spettro politico. D’altro canto un secondo richiamo è quello all’Islam più politico, che comunque aspira a far sì che l’Islam sia sempre più presente come identità politica e sociale in Turchia.

C’è però da dire che questa apertura parla ai turchi anche perché in un certo senso fa sì che venga distolta la loro attenzione dalle questioni più dirimenti dal punto di vista politico e non solo.

È oggi forte la repressione delle opposizioni in Turchia, anche di sindaci e deputati dei partiti di opposizione, in primis l’Hdp, filocurdo. E poi ricordiamo la sconfitta dell’Akp nelle elezioni municipali del giugno 2019, elezioni che hanno visto i partiti di opposizione vincere a Istanbul e nelle maggiori città del Paese. Il partito di Erdoğan è ai minimi storici e lo stesso partito è stato vittima nell’ultimo anno di due importanti scissioni: che sono avvenute da ex membri del partito stesso, Ahmet Davutoğlu, con il Partito del Futuro, e Ali Babacan con il nuovo partito Democrazia e Progresso. Questi due partiti sono destinati a prendersi una parte del voto, dell’elettorato dell’Akp, e questo fa sì che questo partito sia politicamente in qualche modo non goda più politicamente di quel sostegno e di quella forza egemonica della parte più conservatrice del Paese. Non da ultimo va aggiunta la questione economica, perché la Turchia dal 2018 è entrata in una recessione profonda, la pandemia ha aggravato la situazione frenando il turismo e questa crisi, questa recessione, è stata soprattutto legata alla moneta. Oggi la lira turca si cambia a 7,7 sull’euro, quindi siamo nuovamente in una situazione drammatica».

Al netto del valore turistico di Ayasofya, che rimarrà comunque visitabile, pur con regole che ancora non conosciamo, che cosa significa per Istanbul? Come si inserirà questa trasformazione nel tessuto sociale?

«Ayasofya è un simbolo dell’umanità, è stato ricordato molto in questi giorni. Porre l’attenzione sulla conquista del 29 maggio del 1453 è segno di uno Stato che guarda al passato, o meglio che ha bisogno di cercare una glorificazione nel passato invece che al presente, che cerca eroi nel passato. La ricerca di un passato ottomano da glorificare, quindi l’incapacità anche di leggere le trasformazioni future e presenti.

Di fronte a questo luogo, che è un patrimonio dell’umanità, che ha visto anche l’Unesco prendere posizione contro questa decisione, c’è però da dire che è anche sicuramente simbolo di una Turchia che è stata ed è anche multiculturale, perché sono presenti delle minoranze etniche e religiose. Oggi la minoranza cristiana, prima di ogni altra, sente come se fosse nuovamente contrastata la sua stessa esistenza. È il caso di ricordare che la minoranza cristiana è stata vittima di un pogrom nel 1955, quindi non tantissimo tempo fa.

Molto recentemente le tensioni con la comunità greca di Istanbul si sono intensificate, perché il nazionalismo è molto forte ed è un’ideologia che, se fomentata e se continuamente considerata la chiave per l’identità dello Stato-nazione turco, può provocare tensioni di questo tipo. È importante rendere in questo senso chiara la presenza delle minoranze, come questa decisione sia segno di un periodo buio per chi non è ottano e non sunnita oggi in Turchia. La funzione di museo era simbolica, voleva andare oltre il passato e ai suoi elementi, mentre quanto si vede oggi non va in questa direzione».

Ecco, in quale direzione si va oggi?

«Si cerca di approfittare di quello che è stato il passato, come se questo passato potesse permetterci di leggere il nostro presente. Dico questo anche perché il nazionalismo c’è in Turchia, ed è molto forte, ma è presente anche in Grecia. Non a caso di recente la risposta a quella che è stata definita una provocazione da parte della Turchia è stata quella di chiedere che venisse cambiato il nome della casa-museo di Atatürk a Salonicco in “museo dei greci del Ponto”, a ricordare la tragicità non solo del pogrom del 1955, ma ben prima, con gli scambi di popolazione che sono avvenuti tra la Turchia e la Grecia negli anni Venti. A rimarcare questo passato terribile, che vide lo scambio di cittadini greci e di cittadini turchi con la nascita dello Stato turco è esattamente la decisione di aprire ai fedeli e rendere a tutti gli effetti moschea Ayasofya il 24 luglio, proprio lo stesso giorno in cui fu firmato il trattato di Losanna nel 1923.

Sicuramente per la minoranza greca, per la minoranza cristiano-ortodossa, questa decisione è significativa, è indice di una volontà di mancata apertura che è molto lontana dal discorso dei primi anni Duemila dell’Akp nei confronti delle minoranze. Siamo molto lontani da quei primi anni. Questo è un gesto simbolico, certo, non si tratta di un attacco o una legge contro le minoranze, ma se pensiamo che tutte le chiese oggi in Turchia hanno uno statuto particolare, questo gesto è un ulteriore segnale che poco fa sperare nella riapertura di dialogo e maggiore apertura nei contronti delle minoranze».

Come prevedibile, non sono mancate le reazioni, prima di tutto di diverse autorità cristiane, o da Paesi a maggioranza cristiana, come Grecia e Russia. Un po’ meno prevedibili le reazioni quantomeno fredde o apertamente ostili che arrivano dall’Iran, a maggioranza sciita, ma anche dal Qatar e da altri Paesi mediorientali. C’è quindi una forte dimensione geopolitica. Ci possiamo leggere anche un’affermazione di forza di Erdoğan verso l’esterno, come a ribadire l’autonomia turca?

«Si è parlato molto di questa lettura, e se si ascolta il discorso di Erdoğan del 10 luglio, nel quale ha parlato e spiegato la decisione, si trovano immediati riferimenti a Gerusalemme e al cosiddetto “mondo musulmano” nel suo complesso. Questo è un tentativo che la Turchia porta avanti da diversi anni, una cosiddetta “politica umanitaria” di aiuto a tutti i “fratelli” del mondo musulmano, con cui ci si vuole ergere a leader di quel mondo. Si ritrovano alcuni elementi di questa narrazione che si ripetono con una certa frequenza. Prima di tutto la Turchia si propone come portavoce di un mondo musulmano che è oppresso. Ci sono tanti riferimenti a una narrazione quasi “altermondialista”, contraria all’imperialismo dell’Occidente, una retorica che a noi può suonare sorpassata ma che in realtà si ritrova molto nel discorso con cui la Turchia si pone a leader del mondo musulmano.

Ritorna in questi giorni, e mi ha colpito molto, una risposta alla critiche internazionali, in cui Erdoğan dice che “quando i Paesi occidentali smetteranno di rendere chiara e manifesta la loro islamofobia, allora potrannoparlare di Ayasofya”, rinnovando questa idea che non solo l’Occidente ha continuato a opprimere il mondo musulmano con l’imperialismo e la colonizzazione, ma ora si permette di intromettersi nelle decisioni dei singoli Stati. Insomma, la Turchia ha sviluppato questa contronarrazione di Stato che aiuta, che si fa portavoce, che libera quindi gli altri Paesi musulmani dal controllo occidentale».

Alcuni commentatori sostengono che la vicenda di Ayasofya dimostri che nella creazione della laicità a tavolino, per decreto, c’è un limite enorme, cioè dopo un po’ collassa. È una tesi ragionevole?

«La laicità turca è un qualcosa sui generis, è difficile trovare un esempio simile. È tuttavia importante ricordare che non è una separazione tra Stato e religione, quanto piuttosto un controllo da parte dello Stato sulla religione. Nel caso di Ayasofya c’è quindi la volontà di porre a termine questa idea di laicità, quanto piuttosto una volontà di far sì che l’identità religiosa emerga, si diffonda nella società, riesca a trovare spazi e luoghi in cui diffondersi. Penso che sia anche nella volontà dell’Akp continuare a controllare la religione, ma facendo sì che questa religione possa diffondersi, permeare il più possibile la società e in qualche modo quindi far sì che emerga l’identità sunnita oltre che turca dello Stato.

Se vogliamo, la rottura con Atatürk è piuttosto sulla secolarizzazione, o comunque sull’idea che la religione possa essere in qualche modo ricondotta a uno spazio privato, e quindi svolto all’interno delle mura domestiche o nei luoghi di culto ma che non abbia necessità di espandersi, di invadere lo spazio pubblico inteso come sfera delle istituzioni. Questa è una rottura, ma è bene ricordare che già nel 2006 il governo aveva già concesso un piccolo spazio per la preghiera all’interno di Ayasofya. Siamo quindi all’interno di un tema che era fortemente dibattuto già all’inizio degli anni Duemila».

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