Afghanistan. Se ne vanno i soldati, rimangono le ferite
18 giugno 2020
Il ritiro dei militari statunitensi dal conflitto cominciato nel 2001 si innesta su una situazione sanitaria e di sicurezza molto fragile. Intervista con Marco Puntin (Emergency)
Alla fine di maggio il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha lanciato l'ipotesi di accelerare l'uscita dall'Afghanistan delle truppe statunitensi, in modo da completare il ritiro entro le elezioni di novembre.
Secondo il patto siglato alla fine di febbraio dagli Stati Uniti e dai rappresentanti dei talebani, Washington ha l’impegno di ridurre la propria presenza militare nel Paese da 13.000 a 8.600 effettivi entro la metà di luglio, per poi completare il ritiro entro la metà del 2021.
Tuttavia, l’intenzione dichiarata alla fine del mese scorso è invece quella di porre fine alla guerra più lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, cominciata nel novembre 2001, entro la fine del mandato presidenziale e di un voto che si preannuncia quantomeno difficile, alla luce della crisi sanitaria, di quella economica e di una società mai così divisa negli ultimi decenni.
In un tweet, Trump ha lamentato che l’esercito sta “agendo come una forza di polizia” e non come “la forza di combattimento che siamo”, affermando quindi che è ora per le autorità afghane di sorvegliare il proprio Paese.
Al netto di considerazioni elettorali e dell’impatto di questa iniziativa sulla politica statunitense e sulla NATO, è importante riflettere sulla situazione in cui si trova l’Afghanistan, a 19 anni dall’inizio di una guerra che, sul territorio, è in continuità con diversi conflitti che segnano il Paese da oltre quarant’anni. Inoltre, gli episodi di violenza rimangono comuni e diffusi. Venerdì 12 giugno, un’esplosione ha colpito la moschea di Sher Shah Suri, nell’area ovest di Kabul, mentre i fedeli erano riuniti per la tradizionale preghiera del venerdì pomeriggio. L’ordigno ha ucciso quattro persone, tra cui l’imam della moschea, segnando l’ennesimo capitolo di una serie di attentati che sono diventati più frequenti nell’ultimo anno, nonostante il numero di vittime civili tra morti e feriti nel primo trimestre dell’anno sia stato, secondo la missione delle Nazioni Unite in Afghanistan, il più basso dal 2012.
Marco Puntin, coordinatore dei programmi di Emergency in Afghanistan, spiega che «dopo gli accordi di pace tra Talebani e Stati Uniti a fine febbraio si è mosso qualcosa, però non molto. Il governo afghano dipende per la maggior parte dai finanziamenti esterni e quelli statunitensi sono la fetta più grossa. Un ritiro potrebbe portare a una riduzione del finanziamento al governo, il che lo metterebbe sicuramente in ginocchio».
Cosa si può dire della situazione sanitaria in generale?
«Parliamo di un sistema sanitario già provato e indebolito da quarant’anni di guerra. Gli ospedali ci sono, ma come lavorano e come funzionano è uno dei grossi punti di domanda. La qualità del servizio è bassa e anche il livello del personale sanitario, purtroppo, è molto basso. Quindi la situazione non è delle migliori».
Emergency è in Afghanistan dal 1999, e dal 2001 lavora nel contesto di una guerra avviata dalla NATO. In questi 20 anni le necessità di intervento si sono evolute o si sta ancora rispondendo oggi alle stesse necessità di allora?
«Noi non vediamo praticamente nessun cambiamento, perché la guerra continua. Certo, ci sono dei picchi, degli anni in cui ci sono più feriti e altri in cui ce ne sono di meno, ma la variazione è minima. Per esempio, continuiamo a vedere feriti che arrivano da tutte le province in cui operiamo. Abbiamo tre ospedali, due dei quali fanno chirurgia di guerra. a Kabul e nella città di Lashkar Gah, nella provincia dell’Helman, e operiamo in dodici province, nel senso che abbiamo dei centri di primo soccorso per traumi di guerra. Quindi i pazienti feriti arrivano nei nostri centri di primo soccorso, e da lì, se hanno bisogno di cure chirurgiche, vengono inviati nei nostri due ospedali. E noi continuiamo a vedere l’arrivo di tanti feriti».
Una delle caratteristiche più vistose della guerra in Afghanistan, almeno nei primi anni, era il grande ricorso alle mine antipersona. Si tratta di un problema tipico delle zone di guerra, anche perché provoca conseguenze a lungo termine anche se si riesce a salvare la vita di chi è vittima di una mina. Oggi da questo punto di vista si è fatto qualche progresso?
«Credo che la situazione sia leggermente migliorata a livello di mine antiuomo rispetto a vent'annni fa, ma comunque per esempio nel Sud il 7-8% dei nostri pazienti sono feriti a causa di mine antiuomo. Oltretutto, non necessariamente sono vecchie mine, ma continuano a essere utilizzate nelle strade in molti attentati che vengono fatti, per esempio a Kabul, con ordigni esplosivi che possiamo comunque calcolare come mine. Ecco, per esempio nella capitale questa è la prima causa di feriti. A Kabul abbiamo numeri leggermente minori rispetto al Sud, ma ci sono ancora tante zone non sminate, per esempio nelle zone montagnose, dove si combatte, ci sono ancora diverse zone minate. Le mine portano ad amputazione degli arti, soprattutto delle gambe, quindi il peso è grande anche se salviamo la vita di queste persone. Anche per i familiari è difficile poi occuparsi dei propri familiari con amputazioni, noi abbiamo dei reparti di fisioterapia nei nostri ospedali e non solo facciamo fisioterapia con i pazienti, ma insegniamo anche al familiare come prendersi cura del paziente una volta che tornerà a casa».
Al di là di alcuni episodi come quelli da lei citati, i problemi di sicurezza nel Paese sono risolti o in via di risoluzione?
«No, assolutamente no. La situazione rimane come sempre critica. L'Afghanistan è un paese pericoloso, perché si combatte in almeno il 60% del Paese. Ci sono alcune zone controllate dai talebani e altre controllate dal governo, ma per il resto, il 50-60% del territorio sono zone contese, in cui si continua a combattere. Noi cerchiamo di ridurre al minimo il rischio per il nostro personale. Noi per esempio, personale internazionale, ci muoviamo solo tra casa e ospedale, non permettiamo il movimento all'interno del paese né tantomeno all'interno delle città, per esempio Kabul, dato che il rischio di attentati è altissimo. Ci sono tanti checkpost nella città e i checkpost sono comunque un bersaglio. La stessa cosa vale per il Sud e per altre zone del Paese».
E però qualche prospettiva per il futuro, per cui si possa innescare una riduzione della conflittualità?
«L'unica opzione che vedo come possibile per ridurre la violenza in questo Paese è che inizino i dialoghi intra-afghani, quindi tra talebani e governo afghano. È l'unico modo per cercare in qualche modo di mettersi d'accordo. Io spero vivamente che ci siano dei passi in avanti e spero vivamente che ospedali di chirurgia di guerra non servano più in futuro come servono attualmente. Al di là di questo, abbiamo anche un altro ospedale in Afghanistan, nella provincia del Panshir, in cui facciamo maternità, pediatria e chirurgia generale. La speranza è che tutti gli ospedali diventino degli ospedali generali e non più di chirurgia di guerra».