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I diritti dei rifugiati prima di tutto

In Svizzera le chiese principali e l’ente di aiuto delle Chiese evangeliche (Heks/Eper) spronano il Consiglio federale ad attivarsi per aiutare le popolazioni ancora più esposte alle conseguenze della pandemia

Con l’emergenza sanitaria del Covid-19 le condizioni delle persone migranti e richiedenti asilo sono ancora più precarie e drammatiche, sia per quanto riguarda gli arrivi via mare (ne abbiamo parlato qualche giorno fa ricordando che si continua a morire, da un lato, e a strumentalizzare, dall’altro) sia per quanto riguarda la situazione dei campi profughi. Lo sottolineano con forte allarme diversi organismi a livello internazionale, a partire dall’appello ad accogliere 1600 minori non accompagnati accampati in condizioni spaventose nei campi per migranti sulle isole greche, rinnovato senza molte speranze pochi giorni prima di Pasqua  (ne avevamo parlato qui) e per il quale otto Stati europei avevano espresso la loro disponibilità: Germania, Francia, Portogallo, Finlandia, Lituania, Croazia, Irlanda, Lussemburgo.

Fra questi non figurava la Svizzera, che però si è attivata negli stessi giorni sullo stesso tema: le tre principali chiese del Paese, raccontava un articolo pubblicato da Voce Evangelica venerdì scorso, lanciava un analogo appello al Consiglio federale a soccorrere i giovani bloccati nelle isole elleniche, aventi legami famigliari con persone presenti in Svizzera.

Nel comunicato del 9 aprile, firmato da Gottfried Locher, Felix Gmür, e Harald Rein, rappresentanti della Chiesa evangelica riformata in Svizzera (Cers), della Conferenza dei vescovi svizzeri (Cvs) e della Chiesa cattolica-cristiana della Svizzera, si sottolinea infatti che «la pandemia che si sta diffondendo non permette di perdere altro tempo prezioso» e «in virtù dei trattati di Schengen e Dublino, esiste una responsabilità condivisa per la situazione dei rifugiati e della popolazione locale in Grecia». Anche se il numero individuato di minorenni con legami con la Svizzera è basso (20 persone), si legge nell’articolo, i tre leader cristiani affermano che il numero reale è molto più elevato, e che in ogni caso è importante agire.

La rete di realtà ecclesiastiche e sociali pronte ad accogliere, sostengono, è attiva, come già in passato, e tra queste si può ricordare senza dubbio l’ente di aiuto delle Chiese evangeliche in Svizzera (Heks/Eper), di cui spesso abbiamo parlato su Riformautilizzando il termine della sigla francese, Entraide.

La tutela dei diritti di rifugiati e richiedenti asilo è l’obiettivo principale dell’ente, che negli stessi giorni (8 aprile) ha diffuso un appello richiamando ancora una volta le condizioni “disumane” dei campi delle isole dell’Egeo, ma anche alla frontiera fra Grecia e Turchia. La Grecia ha sospeso “temporaneamente” le richieste d’asilo, ricorda il comunicato, e le condizioni sanitarie e igieniche espongono le persone a ogni tipo di infezione, considerando anche la presenza di moltissimi bambini non vaccinati.

Da molti mesi l’Eper è attiva nel nord-ovest della Siria, «teatro di una catastrofe umanitaria di un’ampiezza incalcolabile» (sottolinea il comunicato), distribuendo pacchi alimentari e prodotti per l’igiene, ma la pandemia rende difficile consegnare questi beni, oltre a minacciare la salute delle persone.

Da diversi anni l’organizzazione chiede alla Svizzera «di creare delle vie legali per i rifugiati e di aumentare a 10.000 il numero di protezioni umanitarie ogni anno», e tale appello al Consiglio federale è stato ribadito anche ora, ricordando (come si legge in un altro comunicato, sempre dell’8 aprile) l’importanza che le procedure di richiesta d’asilo non vadano a danneggiare gli stessi richiedenti, per esempio nel caso di un esame medico per valutare l’ammissibilità o meno della richiesta. È ovvio infatti che con l’epidemia di Covid-19 in corso, molte persone risultano più esposte al virus, ma non possono essere considerate secondo i criteri di una situazione normale. L’Eper ritiene pertanto che i procedimenti delle persone più a rischio dovrebbero essere sospese, così come l’applicazione del trattato di Dublino riguardo al loro trasferimento nel paese di primo approdo, in quanto non sono garantite le condizioni di sicurezza sanitaria e giuridica. I tempi della gestione delle pratiche, sottolinea l’Eper, sono forzatamente allungati, anche per le difficoltà delle autorità e dei rappresentanti legali di procedere con il loro lavoro il termine per i ricorsi è stato prolungato, per esempio, da 7 a 30 giorni.

E il fronte dell’azione dell’Eper va ben oltre i confini del paese alpino, esprimendosi in questo periodo con molte iniziative per contrastare la diffusione dell’epidemia, in Centro America (con azioni di sensibilizzazione delle popolazione attraverso poster e programmi alla radio), Asia (nei campi di rifugiati Rohingyas in Bangladesh), Europa dell’Est (con azioni di cura a domicilio) e Africa (con azioni di sensibilizzazione e kit igienici).

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