Libia, nessun negoziato all’orizzonte
16 aprile 2020
Il governo di Tripoli, in guerra contro Khalifa Haftar, esclude di sedersi al tavolo in tempi brevi, mentre la chiusura dei porti europei aggrava la crisi umanitaria di chi è detenuto nei centri per migranti
La pace in Libia, o almeno una tregua, è sempre più distante, e a farne le spese sono soprattutto gli ultimi, che siano civili libici o persone che dalla Libia vorrebbero soltanto transitare.
Il mese scorso era stata alimentata qualche timida speranza per una riduzione del conflitto, soprattutto perché le due principali fazioni coinvolte nella guerra avevano accolto l’invito delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ad attuare una tregua umanitaria per poter contrastare anche nel Paese la crisi sanitaria globale. In particolare, l’intenzione era permettere all’Oms di accedere al territorio libico per effettuare test e analisi in condizioni di sicurezza. Oggi in Libia si segnala un numero molto basso di casi, meno di 50, ma le condizioni del sistema sanitario sono così compromesse da non consentire particolare ottimismo sulla capacità del Paese di contenere i focolai.
Eppure, quella tregua non è mai diventata realtà, al punto che già nella serata del 22 marzo, giorno dell’annuncio, erano stati registrati colpi di mortaio nella periferia meridionale di Tripoli, di cui si ritiene sia responsabile l’Esercito Nazionale Libico, guidato da Khalifa Haftar, che negli ultimi mesi ha stretto sempre di più le proprie posizioni intorno alla capitale libica. Ma cercare le responsabilità soltanto in seno alle forze di Haftar non restituisce la generale indifferenza verso la diplomazia e il diritto internazionale, che risiede invece in tutte le parti in conflitto. Ancora il 22 marzo, le forze del Governo di Unità Nazionale, guidato da Fayez al-Sarraj, avevano infatti sequestrato una petroliera al largo delle coste di Misurata, città alleata di Tripoli e luogo strategico nel conflitto. La nave cisterna è accusata di aver scaricato nel porto di Bengasi, nell’est del Paese, il carburante per caccia militari destinato invece a Tripoli. Due episodi tra i tanti che fanno capire quanto la tregua umanitaria sia stata largamente ignorata e violata sin dalle origini.
Allo stesso modo, anche il cessate il fuoco stabilito lo scorso 19 gennaio nell’ambito della Conferenza di Berlino non è mai stato realmente rispettato. Durante quella conferenza, accolta con scetticismo da molti osservatori, era stato raggiunto un obiettivo non scontato, quello di riunire attorno allo stesso tavolo i principali attori della guerra libica, ma lo spazio per un’azione diplomatica è sempre stato troppo stretto e impossibile da percorrere. A complicare le cose, gli ultimi mesi hanno visto Haftar guadagnare sempre più terreno sul piano della forza militare, con azioni sempre più forti e sempre più vicine al cuore di Tripoli, segno di una capacità bellica crescente e di un sostegno internazionale che non è mai venuto meno. Anzi, l’ultimo anno – e la conferenza di Berlino non fa differenza – ha mostrato come Haftar sia considerato un interlocutore indispensabile per una soluzione politica alla crisi. Inoltre, il supporto russo ed egiziano, oltre a quello di Emirati Arabi Uniti e Giordania, è costante, al punto da non aver mai realmente interrotto le forniture militari, nonostante le intenzioni dell’Unione europea. Allo stesso modo, anche il sostegno turco a Tripoli è forte e presente, come dimostrano l’invio di attrezzature militari e di mercenari siriani, il cui compito è di rafforzare le difese dell’asse Tripoli-Misurata.
Mercoledì 15 aprile, le deboli speranze di nuovi negoziati sono state cancellate con le dichiarazioni del capo del governo di Tripoli, Fayez Sl-sarraj, che ha tolto l’opzione dal tavolo, accusando Khalifa Haftar di sfruttare la pandemia per lanciare, nel silenzio generale, una nuova offensiva contro la capitale del Paese.
Sarraj ha accusato Haftar di aver bombardato indiscriminatamente le zone residenziali e le strutture di Tripoli, oltre ad aver colpito l’ospedale pubblico di al-Khadra, nel centro della capitale. «Noi abbiamo sempre cercato di risolvere le nostre dispute attraverso un processo politico – ha dichiarato lo stesso Sarraj mercoledì 15 a Repubblica – ma ogni accordo è stato subito rinnegato da Haftar».
In effetti, oggi per Haftar non c’è nessuna buona ragione per sospendere il conflitto, perché una ripresa delle trattative diplomatiche non farebbe altro che congelare lo sforzo bellico condotto negli ultimi mesi. Perciò, non soltanto si sta ignorando la potenziale emergenza sanitaria, ma si sta rilanciando proprio per sfruttare l’inerzia del conflitto in un momento in cui la comunità internazionale, già estremamente debole e divisa intorno alla questione libica, è tutta concentrata su questioni differenti.
Tuttavia, la Libia vive una crisi totale, sempre più profonda: da un lato il crollo del prezzo del petrolio si inserisce su un blocco produttivo che ha messo in ginocchio l’economia del Paese, ormai del tutto dipendente dal sostegno esterno, e dall’altra la costante violazione dei diritti umani nei centri di detenzione per migranti, su cui l’emergenza sanitaria rischia di abbattersi con violenza.
Oggi, inoltre, la Libia è sempre di più un luogo senza via d’uscita: proprio mentre il presidente libico tuonava contro Haftar, 51 persone migranti provenienti dall’Eritrea e dal Sudan venivano state fatte sbarcare a Tripoli dalla cosiddetta “guardia costiera libica” per rientrare nei centri di detenzione locali, il tutto mentre gli scontri nella capitale continuano.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), queste 51 persone erano state consegnate alle autorità libiche dopo essere state salvate martedì sera da una nave commerciale nelle acque territoriali maltesi. In quell’occasione erano stati anche recuperati cinque corpi. Il punto è che in molti erano a conoscenza del naufragio, segnalato da Alarm Phone, un servizio telefonico e di segnalazione per le persone che hanno bisogno di essere soccorsi in mare. Allo stesso modo, il governo maltese ha affermato che l’Unione europea era stata avvertita, ma aveva deciso di non intervenire, lasciando la gestione del salvataggio a una nave commerciale maltese, che successivamente aveva trasbordato i naufraghi su un peschereccio libico. Per loro, come per altre centinaia di persone in questa nuova stagione di porti ufficialmente chiusi, si riaprono le porte dei centri di detenzione, in cui i trafficanti di esseri umani, investiti di potere dalle autorità locali o nazionali, li trattengono spesso con metodi violenti, torture e ricatti. Secondo l’Oim, «le persone soccorse in mare non dovrebbero essere rimandate in porti non sicuri», e «un’alternativa allo sbarco in Libia va trovata con urgenza». Inoltre, i centri di detenzione in LIbia sono strutture sovraffollate, che hanno il potenziale per diventare un terreno fertile per la diffusione del Covid-19 e di molte altre malattie, rendendo ancora più grave una condizione da cui troppo spesso distogliamo lo sguardo.