Martin Luther King, quel sogno celebrato ma non realizzato
16 gennaio 2020
Il 15 gennaio 1929 nacque ad Atlanta il pastore battista, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani, una delle figure più carismatiche del Novecento. L'editoriale del professor Paolo Naso per l'agenzia stampa Nev-Notizie Evangeliche
Il King’s day in cui gli americani commemorano il più noto leader del movimento per i diritti civili degli USA fu istituito nel 1983, sotto la presidenza di Ronald Reagan.
E già questo è un fatto paradossale perché la storia non riconosce all’ex attore di film western un particolare ruolo nell’azione politica a sostegno delle popolazione afroamericana; al contrario l’asse strategico delle sue politiche sociali fu orientato allo smantellamento delle misure di welfare adottate negli anni della presidenza Johnson che avevano dato frutti importanti sul piano della crescita economica delle minoranze etniche.
Ma il movimento che da tempo rivendicava un riconoscimento a King e a quanto egli rappresentò aveva ormai una sua consistenza e Reagan scelse di non contrastarlo, finendo anzi per assecondarlo e intestarsi così il merito di una scelta fortemente simbolica dell’unità di tutti gli americani.
Il King’s day, celebrato in occasione del giorno della sua nascita, ha finito così per rimarginare alcune ferite che si trascinavano dai turbolenti anni ’60 ma anche per cristallizzare la figura del pastore battista e leader politico nel cliché addomesticato e rassicurante di eroe nazionale della nonviolenza e della convivenza interraziale.
Negli anni, questa operazione ha prodotto celebrazioni sempre più corali ma ha anche semplificato una figura complessa che va ricordata, oltre che per la sua lealtà all’America e ai suoi principi, per la sua capacità di mobilitare un movimento di massa che denunciava il tradimento plateale e violento di fondamentali diritti umani da parte di un sistema che, superata la segregazione, restava razzista, basato cioè su comportamenti e convenzioni che condannavano gli afroamericani a occupare i gradini più bassi del sistema sociale. Una dura contabilità, ad esempio, ancora oggi registra troppi afroamericani in carcere e troppo pochi nei college.
Gli anni di Obama alla Casa Bianca hanno creato l’illusione ottica di una inversione di tendenza e rafforzato la speranza di un paese che aveva la forza di redimersi dal suo peccato originale, il razzismo. Non è andata così e, chiusa quella finestra democratica, l’America deve fare i conti – di nuovo! – con quel dèmone che tormenta la credibilità e la sostenibilità delle sue politiche sociali.
King continua ad apparire in lapidi e monumenti, così come nel Mall di Washington dove nel 1963 pronunciò il suo famoso discorso I have a dream. Ma appare sempre più solo, eroificato e addomesticato nella narrazione rassicurante di un paese riconciliato che ha sostanzialmente superato la sua divisione razziale. Non è così, e la sfida della coesione sociale si è semmai aggravata con l’aumento della popolazione ispanica e degli immigrati africani e asiatici.
King fu l’uomo della nonviolenza, certo, ma anche quello di una denuncia radicale e destabilizzante degli equilibri di potere della società americana. E vale la pena ricordare che non fu ucciso nel momento della sua massima fama ma, al contrario, quando si ritrovò isolato e screditato a causa delle sue battaglie contro la guerra in Vietnam e contro la povertà di milioni di americani, bianchi e neri. Celebrare il sogno di una società riconciliata e liberata dal razzismo è giusto e utile, ma solo se si ha il coraggio morale e civile di riconoscere che quel sogno non si è realizzato.