Guerra in Yemen: processo alle armi?
19 dicembre 2019
Numerose realtà della rete disarmista internazionale hanno presentato un esposto al Tribunale Penale Internazionale per fermare un conflitto che non ha oggi una via d’uscita politica
All’inizio di dicembre del 2018, nella capitale svedese Stoccolma veniva siglato l’accordo che si pensava, o sperava, potesse essere l’inizio della fine del conflitto in Yemen. Tra gli impegni sottoscritti dalle parti in guerra, il disarmo del porto di Hodeidah, diventato linea del fronte e principale punto d’ingresso per gli aiuti umanitari e le merci all’interno del Paese. Di lì in poi, l’idea di ridurre progressivamente le aree di crisi, muovendo verso una soluzione politica del conflitto.
Come raccontato, tutto questo non è accaduto, e il 2019 è stato segnato addirittura dall’aggravarsi della crisi interna alla (ex?) coalizione a guida saudita, con l’avanzata dei separatisti del sud, sostenuti dagli Emirati Arabi Uniti, una crisi poi rientrata ma che è destinata a lasciare strascichi.
Lo Yemen rimane un Paese altamente armato e militarizzato, e con una fornitura di armi che, nonostante alcune decisioni politiche, non ha mai smesso di fluire da Occidente verso il paese più povero della Penisola arabica. Da qui, la necessità di intervenire.
L’organizzazione yemenita Mwatana, insieme a diverse realtà tra cui la Rete italiana per il disarmo, ha deciso di presentare un esposto al Tribunale Penale Internazionale de L’Aia per provare a muovere una situazione ormai bloccata. «In questi ultimi anni – racconta Francesco Vignarca, coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo – molte organizzazioni avevano avviato delle azioni legali, ciascuno nel proprio Paese, per sottolineare che le vendite di armi, in particolare verso i paesi che componevano la coalizione saudita, fossero illegali non solo dal punto di vista delle singole leggi nazionali ma anche soprattutto per quanto riguarda la posizione comune europea sull'export di armi e il Trattato sul commercio di armi. Abbiamo deciso poi di salire di livello, arrivare all'Aja perché nel corso di questi anni non solo noi ci siamo occupati della questione ma anche molti esperti internazionali, in particolare il gruppo di esperti delle Nazioni Unite che ha sottolineato come negli ultimi anni tutte le parti in causa del conflitto abbiano commesso violazioni dei diritti umani e addirittura in alcuni casi possibili crimini di guerra. Abbiamo deciso di affiancare alle azioni legali di ciascun Paese anche un'iniziativa congiunta che fosse proprio direzionata alla Corte, che va sopra gli Stati e interviene quando gli Stati non sono in grado di gestire questo tipo di possibili violazioni penali».
Le eventuali indagini che si potrebbero aprire riguarderebbero soltanto gli attori statali o per esempio anche la filiera del commercio delle armi?
«Questo deriva dall'esperienza italiana, nel senso che nella nostra azione legale, sempre condotta con Mwatana e con il CCHR, il centro sui Centro diritti umani di Berlino, avevamo sottolineato come non solo i responsabili dell'export di armamenti, delle licenze di armamenti dovessero essere in qualche modo indagati ma anche i manager delle aziende, perché che un'azienda riceva una licenza, un'autorizzazione, non significa che per forza sia obbligata a esportare: anche loro potevano avere tutti gli elementi per capire che la fornitura di armi verso lo Yemen avrebbe favorito e facilitato le violazioni dei diritti umani. Quindi, proprio come fatto in Italia, anche a livello internazionale si è deciso di sottolineare in questa comunicazione ai procuratori della Corte non solo le possibili responsabilità degli attori statali e quindi dei responsabili diplomatici, i responsabili degli uffici governativi, ma anche delle aziende stesse».
Lei vede una via d'uscita politica da questo conflitto?
«Faccio mie le parole di Radhya Al-Mutawakel, che è la presidente e anima di Mwatana, tra l'altro nominata nel 2019 da Time una delle cento persone più influenti del mondo: si potrebbe fare molto per lo Yemen, perché nonostante la situazione di stallo militare che vede le milizie Houthi controllare il 20 per cento del territorio e l'ottanta per cento della popolazione, e viceversa la coalizione, la maggioranza dei civili non è coinvolta direttamente in questa guerra, che sta sempre più diventando e degenerando in una guerra tra bande anche all'interno delle due diverse coalizioni che si fronteggiano. Però per farlo c'è bisogno di impegno vero della comunità internazionale».
Che cosa si può muovere?
«Radhya Al-Mutawakel mi ha fatto questo esempio: in soli due mesi, dopo l'omicidio dell'ex presidente Saleh, grazie alla pressione degli Stati Uniti e della Gran Bretagna si arrivò agli accordi di Stoccolma, e questo era un primo passo di speranza, che poi però si è bloccato perché perché la pressione politica della comunità internazionale non è continuata. Quello che è continuato invece sono i flussi di armi e quindi l'unica opzione possibile che i nostri amici yemeniti ci dicono è che finalmente la comunità internazionale, e quindi anche noi nel nostro Paese, scelga la strada giusta che è una scelta di pressione politica affinché i due contendenti decidano di fare veramente degli accordi di pace, dei percorsi di pace seri e non di continuo flusso di armi che serve solo ad alimentare economico finanziari di alcune aziende».
Foto di Ibrahem Qasim