Suicidio assistito: ora la parola al Parlamento
31 luglio 2019
Il parere del Comitato nazionale di Bioetica: a colloquio con Luca Savarino, componente evangelico del Comitato
Il Comitato nazionale per la Bioetica ha reso noto, nella giornata di ieri, un parere dal titolo Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito. Ne parliamo con Luca Savarino, valdese, professore di Bioetica all’Università del Piemonte Orientale, membro del Comitato stesso (di nomina governativa) e Coordinatore della Commissione Bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia.
– Professore, perché era importante che il Comitato nazionale fornisse un proprio parere sul suicidio assistito?
«L’ordinanza 207/2018 della Corte costituzionale, del 24 settembre 2018, chiede al Parlamento di precisare il contenuto dell’art. 580 del Codice penale, che disciplina, e vieta, qualsiasi forma di aiuto o istigazione al suicidio. La Corte è stata chiamata in causa dai giudici di Milano che hanno dovuto giudicare Marco Cappato, autodenunciatosi per aver “aiutato” Fabiano Antoniani a mettere in pratica il proprio suicidio in una clinica svizzera. La Corte ha recepito il quesito del Tribunale di Milano e ha ritenuto che fosse necessario precisare il contenuto dell’art. 580, sostenendo che oggi quel contenuto risulta insufficiente e non sufficientemente chiarito: in primo luogo perché non si distingue tra istigazione e aiuto al suicidio propriamente detto; e in secondo luogo perché non si precisa in che cosa consista esattamente l’aiuto al suicidio. È infatti evidente che negli anni trenta, quando è stato scritto il Codice penale italiano aiutare qualcuno a suicidarsi poteva indicare una serie di azioni molto differenti da quelle rese possibili dal successivo imponente sviluppo delle tecnologie mediche. Il suicidio non era e non poteva essere, a quell’epoca, suicidio medicalmente assistito. La Corte costituzionale ha dato un anno di tempo al Parlamento italiano per legiferare, sostenendo altresì che, sebbene il divieto al suicidio medicalmente assistito non possa in assoluto dirsi incostituzionale, nelle attuali situazioni di sviluppo della tecnica medica possono verificarsi delle situazioni molto particolari, in cui a specifiche categorie di malati sembrerebbe ragionevole concedere la possibilità di arrivare alla fine della loro vita secondo modalità maggiormente conformi – rispetto alla legislazione vigente – alla loro concezione della dignità del morire. Va aggiunto che, nella specifica congiuntura politica in cui ci troviamo, non è probabile (per usare un eufemismo) che il Parlamento voglia e possa avviare un iter legislativo prima del 24 settembre. In tal caso, l’ultima parola spetterà alla Corte. In questa situazione, per certi versi inedita, il Comitato nazionale di Bioetica si è trovato nella condizione di emettere un parere che aiuti il legislatore, ma anche i giudici della Corte costituzionale e il cittadino comune, a far chiarezza sui termini del problema».
– Ecco, ma qual è la norma attuale?
«La legge sul fine vita in vigore, la 219/2017, mette al centro della relazione medico-paziente il “consenso informato” e conferisce al paziente il diritto all’autodeterminazione in materia terapeutica. Questo diritto, tuttavia, ha dei limiti ben precisi: il paziente può decidere di non iniziare o di interrompere qualsiasi trattamento, anche se da ciò derivasse la sua morte, ma non può chiedere di essere aiutato “attivamente” a morire. La legge 219 fa propria la distinzione tra uccidere e lasciar morire: da un lato autorizza la sospensione dei trattamenti su richiesta del paziente, dall’altro vieta sia il suicidio medicalmente assistito sia l’eutanasia. Ricordo che per eutanasia si intende l’atto con cui un medico, su richiesta del paziente, pone fine intenzionalmente alla vita di quest’ultimo attraverso un’iniezione letale (parliamo di pazienti terminali o in gravissime condizioni con prognosi infausta); il suicidio medicalmente assistito se ne distingue perché chi mette fine alla propria vita è il paziente stesso: ciò naturalmente può verificarsi solo a patto che qualcuno prescriva il farmaco e mette il paziente nelle condizioni di eseguire il suo proposito».
– Che giudizio dà del parere espresso dal Comitato nazionale?
«Personalmente lo ritengo un buon documento, per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo perché si mantiene prevalentemente, secondo me correttamente, su un piano avalutativo e descrittivo. Esso mira innanzitutto a definire lo status quaestionis passando in rassegna le differenti fattispecie etiche e giuridiche di cui si discute. In secondo luogo perché soltanto sulla base di queste preliminari considerazioni descrittive vengono poi articolate le differenti posizioni che dividono il Comitato stesso (e che, io aggiungerei, dividono anche i cittadini italiani così come avevano diviso i membri della Commissione delle chiese battiste, metodiste e valdesi). Le questioni in gioco sono vaste e complicate, io qui ne citerei soltanto due: in primo luogo il bilanciamento tra due diritti costituzionalmente garantiti, il valore della vita e l’autodeterminazione individuale; in secondo luogo il ruolo e il senso della professione medica, e a ciò connesso il problema se il senso della cura possa estendersi sino a includere al suo interno l’aiuto al morire. Su questi punti, le posizioni prevalenti all’interno del Comitato sono due: una che ritiene prioritaria la salvaguardia del diritto alla vita e ritiene quindi illegittimo qualsiasi aiuto attivo al morire. L’altra posizione (nella quale io stesso mi riconosco) sostiene invece che, in specifiche, molto gravi e pressoché disperate situazioni, debba essere considerato prevalente il diritto all’autodeterminazione individuale. Naturalmente si tratterebbe di eccezioni, che dovrebbero applicarsi a una categoria estremamente limitata di pazienti. Senza tacere, peraltro, del problema correttamente segnalato dalla posizione di coloro che mettono in evidenza la difficoltà della traduzione legislativa di un’esigenza che moralmente può essere considerata legittima e segnalano i rischi, estremamente concreti nella situazione sanitaria italiana, segnata da una pesante contrazione delle risorse, di una possibile dinamica di “pendio scivoloso” che estenda a categorie di individui più ampie un diritto pensato per categorie estremamente ristrette di pazienti».
– Fra poche settimane si terrà il Sinodo delle chiese valdesi e metodiste: che cosa si aspetta?
«Due anni fa è stato presentato il documento della Commissione bioetica delle chiese battiste, metodiste e valdesi, anch’esso approvato a maggioranza e con posizioni diverse; le chiese lo hanno discusso, e il Sinodo 2018 lo ha recepito. Con una precisazione: il Sinodo non ha affermato che le chiese siano favorevoli al suicidio medicalmente assistito e/o all’eutanasia, ma ha riconosciuto che quel testo era un autorevole strumento di discussione all’interno delle nostre chiese e della società italiana. È possibile che il Sinodo, ora o in futuro, possa proporre un supplemento di discussione, su questi problemi così reali e urgenti nelle società contemporanee, ma sempre avendo presente che non si tratta tanto di prendere una posizione dogmatica su questioni per definizione pertinenti alla coscienza individuale, quanto di fornire elementi utili a favorire il più possibile una discussione e una scelta consapevole dentro e fuori le chiese».