Nessun luogo è sicuro in Libia
07 giugno 2019
Anni di guerra, anni di violenze, di violazioni dei più elementari diritti umani. Gli ultimi due mesi hanno visto una nuova escalation militare. A pagarne le conseguenze, come sempre civili e profughi
Una coazione a ripetere. Questa è l’impressione che si ha leggendo le notizie che arrivano dalla Libia e che possono essere divise in due linee principali: le manovre militari che si ripetono da mesi e le costanti violazioni dei diritti fondamentali di chi è imprigionato nel Paese.
La scorsa notte, l’Esercito Nazionale Libico del maresciallo Khalifa Haftar, rappresentante della regione orientale della Cirenaica, ha attaccato per la seconda volta una base militare ospitata all’interno dell’aeroporto di Tripoli. Si tratta di un nuovo capitolo dell’escalation a cui si assiste ormai da due mesi e che non sta trovando adeguate risposte in seno alla comunità internazionale, che in larga parte riconosce il governo di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj, come legittimo.
All’inizio di aprile Haftar aveva dato il via all’offensiva convinto, dopo aver preso il controllo di ampie aree nel sud del Paese, di poter conquistare la capitale in pochi giorni. Il maresciallo aveva giustificato la nuova azione affermando di combattere contro milizie private e gruppi estremisti, che secondo lui stavano guadagnando influenza nei confronti di Sarraj. Tuttavia, i progressi militari sono stati molto scarsi, soprattutto nel sud del Paese, e alcuni analisti ritengono che questa offensiva non stia facendo altro che rafforzare il più noto e temuto tra i gruppi armati del Paese, il Daesh, in cerca di un nuovo luogo in cui inseguire il proprio progetto politico dopo la fine dell’esperienza in Siria e Iraq.
Dall’inizio dell’offensiva, due mesi fa, più di 75.000 persone sono state sfollate dalle loro case e almeno 500 sono state uccise, secondo le stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Circa 2.400 persone sono invece state ferite, mentre 100.000 persone, tra cui migranti e rifugiati, sono bloccate nella periferia di Tripoli e nelle città vicine. Questa violenza è la più terribile tra le coazioni a ripetere di questa guerra.
In particolare, nelle ultime settimane è il centro di detenzione di Zintan, nel nord-ovest della Libia, a destare particolari preoccupazioni. Si ritiene che da settembre a oggi siano almeno 22 le persone migranti morte nel centro, già tristemente noto per le condizioni estremamente difficili. L’area è innanzitutto complessa da raggiungere da Tripoli, a causa di problemi di sicurezza lungo la strada, dovuti ai combattimenti tra le milizie rivali e all’elevato rischio di rapimento da parte di criminali comuni e gruppi terroristici. I 180km che separano la capitale da Zintan, dunque, sono di per sé il primo ostacolo.
È interessante notare come questo centro sia sotto il controllo del Dipartimento libico per la lotta alla migrazione illegale, un’istituzione creata dopo gli accordi tra Italia e Libia del 2017, nel quadro della formazione ed equipaggiamento alla guardia costiera libica, che aveva il fine dichiarato di fermare i trafficanti di esseri umani e arginare la migrazione verso l'Europa, in base ad un accordo che è stato ripetutamente condannato da gruppi per i diritti umani. Centinaia di rifugiati e migranti detenuti erano stati spostati da Tripoli a Zintan lo scorso settembre, dopo che i centri di detenzione nella capitale sono stati coinvolti in prima linea negli scontri. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), nel centro di Zintan le condizioni sono terribili. Le aree comuni sono sovraffollate e non dispongono di sufficiente aerazione, di conseguenza, rifiuti solidi e organici si sono accumulati da giorni nelle celle e comportano seri rischi per la salute. Rifugiati e migranti hanno bisogno di cure per la tubercolosi, infezioni toraciche, anemia, diarrea e scabbia, tra le altre malattie, ma vengono offerti solo paracetamolo e ibuprofene, eppure il loro contatto con le organizzazioni sanitarie internazionali è pressoché impossibile.
I detenuti hanno raccontato alle organizzazioni internazionali che vengono nutriti al massimo una volta al giorno e che i rubinetti dell'acqua vengono aperti per soli dieci minuti al mattino. Il punto, secondo i rifugiati, è che il centro di detenzione di Zintan non è stato costruito per le persone: la sala che ospitava i rifugiati era precedentemente utilizzata per lo stoccaggio delle colture. Attualmente ci sono sette bagni per 654 rifugiati. Secondo una delle testimonianze raccolte, quattro detenuti hanno cercato di uccidersi afferrando il filo elettrico che attraversa il corridoio, prima che l'elettricità venisse interrotta tre settimane fa. A quel punto i carcerieri hanno legato loro le mani per impedir loro di riprovarci. Proprio per questo, la stessa Unhcr ha trasferito all’inizio della settimana 96 persone verso un centro di raccolta e partenza, persone che rimarranno nella nuova struttura in attesa di essere evacuate verso altri Paesi.
Dal momento che a Tripoli non vi è attualmente alcun centro di detenzione adeguato per ospitare rifugiati e migranti, in parte a causa delle ostilità in corso, l’Unhcr ha ribadito l’appello alla comunità internazionale affinché siano effettuate ulteriori evacuazioni di rifugiati dalla capitale. Il problema è che il numero delle persone condotte nei centri di detenzione dopo essere state soccorse o intercettate al largo delle coste libiche aumenta assai più rapidamente del numero di coloro che vengono evacuati.
Nel solo mese di maggio la Guardia Costiera libica ha ricondotto in Libia 1.224 persone, un numero più elevato di quello registrato nell’insieme degli altri mesi del 2019 messi insieme.
Oggi sulle coste della Libia non esiste nessun porto sicuro, così come sul territorio non esiste alcun luogo sicuro.