Stati Uniti contro Iran, la tensione torna a crescere
25 luglio 2018
Eleonora Ardemagni (ISPI): «è la conferma che l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano era soltanto il primo di una serie di passi»
Torna ad alzarsi la tensione tra Stati Uniti e Iran. In continuità con quanto accaduto negli ultimi mesi, anche l’ultimo fine settimana è stato segnato da dichiarazioni che, sia da Teheran sia da Washington, si caratterizzano per i toni apertamente bellicosi.
«Non giochi con la coda del leone, altrimenti se ne pentirà», aveva dichiarato domenica il presidente iraniano Hassan Rohani rivolgendosi al presidente statunitense Trump durante un incontro con gli ambasciatori iraniani. «Non può provocare il popolo iraniano a scapito della sicurezza e degli interessi del loro Paese. L'Iran è un padrone e non sarà il servitore o il tuttofare di nessuno». La risposta di Donald Trump, affidata a un tweet scritto interamente in maiuscolo, non ha sicuramente abbassato la temperatura. «Non minacciate mai più gli Stati Uniti – ha scritto Trump – o subirete conseguenze come pochi nella storia ne hanno sofferte. Non siamo un Paese che sopporterà le vostre stupide parole di violenza e morte. Fate attenzione».
«Quello che abbiamo di fronte – spiega Eleonora Ardemagni, ricercatrice associata di ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale – è la conferma che l’uscita unilaterale dall’accordo sul nucleare iraniano era soltanto il primo di una serie di passi di una strategia più definita da parte dell’amministrazione Trump nei confronti dell’Iran, non una scelta isolata ». Da quando gli Stati Uniti hanno deciso di uscire dall’accordo sul nucleare sottoscritto con l’Iran nel 2015, l’economia iraniana è entrata in una grave crisi e la moneta nazionale ha subito una forte svalutazione. Il segretario di Stato Mike Pompeo ha affermato che se Teheran accetterà le condizioni poste da Washington, tra cui la rinuncia al programma missilistico e all’ingerenza militare negli altri Paesi della regione, gli Stati Uniti sono pronti a riprendere piene relazioni diplomatiche ed economiche con l’Iran. «Gli Stati Uniti – prosegue Ardemagni – stanno portando avanti due strumenti paralleli: da un lato lo strumento della pressione economica, con un ritorno delle sanzioni e la minaccia di sanzioni secondarie per esempio nei confronti dei Paesi dell’Unione europea e nei confronti di chiunque altro prosegua a fare commercio con l’Iran, dall’altro invece una campagna mediatica molto forte nella quale rientrano anche le dichiarazioni e i tweet di Trump e del Segretario di Stato Pompeo, una campagna mediatica volta a colpire il regime e, in certi casi, a rivolgersi direttamente, come già accaduto in passato, al popolo iraniano, come a voler distinguere tra Stato e popolo».
A che cosa punta questa doppia strategia?
«Vorrebbe indebolire il sistema di potere iraniano aprendo le porte a qualche cosa che nessuno può conoscere e prevedere. Anche nell’ultimo comunicato dell’ultimo vertice Nato di qualche settimana fa si erano usate parole nette nei confronti dell’Iran: nel paragrafo che si occupava dell’Iran si condannavano le attività destabilizzatrici di Teheran in Medio oriente e soprattutto il sostegno agli attori armati nella regione».
Rohani ha nuovamente ventilato l’ipotesi di bloccare lo stretto di Hormuz, che separa la Penisola Arabica dall’Iran, così da fermare l’esportazione di petrolio delle monarchie arabe che si affacciano sul Golfo Persico. Al netto dei toni, questa ipotesi è realistica?
«Questa minaccia da parte iraniana non è nuova, è già stata portata in passato. È però nuova questa situazione di escalation verbale e anche direi a livello economico negli ultimi anni, quindi in una situazione così fluida e in cui le ali estreme da entrambe le parti, sia da parte statunitense che da parte iraniana hanno gioco facile, queste forze chiusura dello stretto di Hormuz, che è un’ipotesi remota, ma meno inverosimile di quanto poteva essere alcuni anni fa».
Che conseguenze potrebbe avere?
«Bloccare lo stretto avrebbe prima di tutto delle conseguenze sull’export di Paesi alleati degli Stati Uniti: penso alle monarchie del Golfo, che necessitano di passare per forza attraverso Hormuz, quindi Kuwait, Bahrein, Qatar, ma anche all’Iraq, quindi è un’azione che avrebbe conseguenze anche sugli alleati degli Stati Uniti.
C’è da dire che non c’è solo lo stretto di Hormuz, ma anche quello di Bab al-Mandab, che separa la Penisola Arabica dall’Africa orientale: qui operano gli Houthi, i ribelli yemeniti filoiraniani. Questo stretto è stato oggetto anche di episodi di lanci di missili, sia contro navi da guerra che navi commerciali, quindi il traffico marittimo e il commercio petrolifero non vive giorni sereni».
E sul fronte interno?
«Ai fini della politica interna il messaggio punta a unire le varie fazioni. Non dimentichiamo che la politica iraniana vive di forte contrapposizione tra fazioni, quindi dichiarazioni come questa hanno l’obiettivo di unirle di fronte al ripresentarsi sempre più forte di quello che viene percepito e che si pone come il nemico comune, quindi gli Stati Uniti».
Nel suo discorso, il presidente Rohani ha affermato che «la pace con l’Iran è la madre di tutte le paci, mentre la guerra con l’Iran è la madre di tutte le guerre». Che cosa si muoverebbe nella regione se si arrivasse davvero alla “madre di tutte le paci”?
«Prima di tutto va detto che al momento questa ipotesi non sussiste con questo tipo di amministrazione americana, non sussiste con una Arabia Saudita così nettamente contrapposta all’Iran con il principe ereditario Mohamed Bin Salman, né sussiste con questo governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, che continua ad additare l’Iran come primo nemico di Israele.
C’è da dire però che se guardiamo al 2015, ai mesi in cui si firmava l’accordo sul nucleare iraniano e quindi si dava sostanza, anche simbolicamente, a una fase di distensione internazionale e di apertura nei confronti dell’Iran, è proprio allora che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno dato seguito a una politica estera sempre più interventista, che ha fatto sempre maggior uso dello strumento militare nella regione. In particolare penso all’intervento armato in Yemen contro i ribelli Houthi, sostenuti proprio dall’Iran. Da allora sauditi ed emiratini hanno portato avanti politiche ancora più divisive e in prima persona rispetto a quelle tradizionali in cui dipendevano di fatto dall’alleato americano. Ecco, paradossalmente una normalizzazione dei rapporti tra Iran e Stati Uniti potrebbe provocare specularmente un aumento della tensione regionale proprio per la reazione del rivale storico dell’Iran, che è appunto l’Arabia Saudita, che potrebbe scegliere di portare avanti una politica estera ancora più muscolare di quella attuale».
L’escalation verbale diretta tra Stati Uniti e Iran è certamente preoccupante, ma per ora rimane soltanto sul piano delle dichiarazioni: mentre entrambi i leader si dicono pronti a una guerra, nessuno la vuole veramente, escluso forse il solo presidente Trump, al punto che dai vertici militari statunitensi sono arrivate parole volte a escludere, per ora l’opzione militare. Il punto, per gli Stati Uniti, non è soltanto militare, ma soprattutto economico: un nuovo conflitto armato regionale in una fase in cui a livello globale sta esplodendo la guerra commerciale potrebbe avere conseguenze molto serie e, oggi, difficili da prevedere.