Congo, via libera all’estrazione di petrolio in aree protette
18 luglio 2018
Il governo della Repubblica Democratica del Congo ha deciso di modificare i confini dei parchi Virunga e Salonga per favorire le multinazionali del petrolio. È l’ultima mossa di Kabila?
Ancora una volta la ricchezza della Repubblica Democratica del Congo è la sua condanna. Il governo del Paese, sul cui territorio si trovano enormi risorse naturali e minerarie, ha infatti deciso di ridisegnare i confini di due parchi nazionali tutelati anche dall’Unesco, quelli di Salonga e Virunga, riducendone le porzioni protette e autorizzando le trivellazioni per l’estrazione di petrolio. La notizia non è completamente nuova: già a maggio, e prima ancora la scorsa estate, l’idea di declassificare le aree protette era stata al centro dell’attenzione.
I parchi di Salonga e Virunga sono tra i luoghi più delicati del Paese e per certi versi dell’intera Africa centro-meridionale: il primo, infatti, tutela la seconda maggiore foresta pluviale al mondo, mentre il secondo ospita moltissime specie a rischio di estinzione grave o critico. Particolarmente simbolico è il caso del gorilla di montagna, studiato e reso celebre dalla zoologa statunitense Dian Fossey, uccisa proprio nel parco di Virunga nel 1985 da bracconieri contrari alla protezione dell’area: la African Wildlife Foundation ritiene che oggi nel mondo sopravvivano circa 1.000 esemplari, e di questi almeno 600 vivono nel parco di Virunga.
Per aggirare lo status di World Heritage assegnato ai parchi dall’Unesco per protegge tra le altre cose dall’esplorazione estrattiva, il ministro degli Idrocarburi della Repubblica Democratica del Congo, Aime Ngoi Muken, ha deciso di ridisegnarne i confini per consentire la deforestazione e l’estrazione in un’area pari a circa 4.500 km quadrati. Secondo il quotidiano economico statunitense Bloomberg, la reale portata di questa decisione riguarderà invece oltre 16.000 km quadrati, con conseguenze ecologiche ancora più ampie. L’estrazione di petrolio, infatti, minaccia di distruggere l’habitat di molte specie animali e vegetali, oltre a inquinare la rete fluviale del Congo e del Nilo, corsi d’acqua decisivi per l’economia di grandi porzioni dell’Africa. Inoltre, nel parco della Salonga, che sorge appunto nel bacino del fiume Congo ed è la seconda foresta pluviale dopo l’Amazzonia, è stata scoperta la più grande ed estesa torbiera del mondo, un magazzino importantissimo di anidride carbonica. «Se – spiega John Mpaliza, ingegnere informatico e attivista per la pace nel suo Paese – andassimo lì a tagliare, a bruciare, a trivellare, a quel punto si libererebbe una grandissima quantità di anidride carbonica. Ci stiamo facendo del male da soli».
Tuttavia, quando si parla del Congo la questione non è soltanto ambientale, ma vede sovrapporsi diversi piani. Il Congo, infatti, è terra di sfruttamento e di guerra non solo per l’intervento delle società petrolifere, ma anche per il gas, il legname, le attività estrattive di oro, coltan e diamanti, così come per le numerosi piantagioni, tutte aree che creano ricchezze che finiscono in mano alle multinazionali e nei conti esteri dei miliardari locali. Una situazione che non può che alimentare violenze e scontri a ogni livello e in ogni luogo, dalle città ai parchi. Mpaliza racconta che «si parla di oltre 8 milioni di vittime, due milioni di donne hanno subito violenza come arma di guerra in questi vent’anni e nello stesso periodo 175 ranger sono stati uccisi nel parco della Virunga. C’è un piano chiaro per far sì che quel parco non abbia più la protezione di cui gode oggi».
Quali attori internazionali beneficeranno di questa decisione?
«Mentre mi informavo per avere un dettaglio delle forze in gioco, ho trovato informazioni contraddittorie. Per esempio, due anni fa la Norvegia è diventata il primo Paese al mondo a vietare la deforestazione, ma oggi, insieme alla Francia, viene definita “all’attacco delle foreste congolesi”. Siamo sempre al punto di partenza: ci sono delle forze economiche importanti del mondo occidentale che hanno bisogno di legno, hanno bisogno di tagliare, ma soprattutto ci sono le multinazionali del petrolio.
Nel parco del Virunga hanno scoperto circa 3.000 miliardi di barili di petrolio, quindi tutte le grandi compagnie occidentali, i cartelli europei e americani, sono già preparati. Anzi, hanno iniziato prima che noi lo sapessimo».
Le politiche estrattive segnano il Paese sin dall’epoca coloniale, ma negli ultimi vent’anni sono ulteriormente cresciute. Il punto è che non si tratta soltanto di un fatto ambientale, ma forse ancora di più politico. In che momento politico ci troviamo nel Paese?
«Abbiamo un presidente, ormai illegittimo da due anni, che doveva organizzare le elezioni entro il 19 dicembre 2016, ma che poi, grazie a un accordo, era riuscito a spostarle al dicembre 2017, ma non si sono mai tenute. Adesso per richiesta degli Stati Uniti sembrerebbe che il 23 dicembre prossimo ci possano essere le elezioni, ma le condizioni sono veramente inaccettabili: siamo l’unico Paese al mondo che decide di usare i computer per il voto, ma in un Paese in cui l’elettricità in molte zone non esiste. È chiaro come andranno a finire queste elezioni».
Non è possibile che Kabila quindi stia cercando di chiudere la propria esperienza alla guida del Paese vendendo tutto ciò che si può vendere e lasciare poi le ricadute negative sul suo successore?
«Siamo convinti che sia la situazione sia esattamente quella. Prima delle concessioni per il petrolio ha fatto lo stesso per il cobalto, che è stato venduto a una grande multinazionale svizzera e soprattutto alla Cina. Il Congo è il primo produttore mondiale di cobalto, che serve per le batterie delle auto elettriche, ma ormai ha svenduto tutte le grande miniere ma così come per tanti altri minerali. La questione della foresta è importante, perché probabilmente Kabila ha pensato che per i congolesi fosse meno interessante rispetto alla questione dei minerali, perché la foresta è una foresta immensa, ma si dimentica che comunque a livello internazionale questa foresta è anche una protezione per tutti noi. È per questo che l’Unesco deve fare in modo che si faccia un passo indietro. Prima di tutto però dobbiamo essere noi congolesi ad agire, con l’aiuto ovviamente della comunità internazionale».
La transizione politica in Gambia lo scorso anno, così come la pace tra Etiopia ed Eritrea, sono segni del fatto che l’Africa sia tutt’altro che ferma. Per il Congo che si avvicina qualche figura che potrebbe marcare un cambiamento?
«Nessuno pensava mai che tra Etiopia ed Eritrea, così all’improvviso, si trovasse la pace. Però in Congo la situazione è diversa: non siamo in guerra contro qualche Paese in particolare, siamo attaccati e occupati. Noi non abbiamo un unico nemico, abbiamo Paesi vicini che vengono usati come base dalle multinazionali ma anche dai Paesi occidentali, per cui non si riesce ad avviare un percorso di pace con un solo interlocutore.
La strada che ci potrebbe portare verso la pace è quella di una transizione senza Kabila. Non chiediamo che sia la comunità internazionale a venirlo a prendere e portare via, noi siamo in grado, ma c’è bisogno che quando il popolo si alza, anche loro dicano qualcosa. Senza Kabila noi potremmo probabilmente mettere le basi per una ripartenza democratica. Insomma, la soluzione interna è quella privilegiata, ma con in qualche modo l’aiuto della comunità internazionale che continua a osservare».
Lei ha contribuito a far conoscere la situazione congolese attraverso numerose iniziative, tra cui le marce per la pace in Italia e in Europa. L’ultima si è tenuta in primavera: ce ne saranno altre?
«Quando partiamo con una marcia spero sempre che sia l’ultima. L’ultima fatta in primavera è arrivata proprio davanti alla sede dell’Onu a Ginevra ed era stata richiesta dagli studenti. Adesso si sta cercando di capire che cosa succederà da qui al 23 dicembre, ma personalmente non credo ci saranno le elezioni, quindi è probabile che siano necessarie altre azioni di pace da portare avanti. Ma anche qualora le cose cominciassero ad andare bene, comunque noi non possiamo abbassare la guardia, avremo sempre qualcosa da fare per spingere la comunità internazionale, l’opinione pubblica italiana, europea e mondiale a guardare in quella direzione, perché lì la gente continua a morire».