Ricerca e consulta tutti gli articoli fino a luglio 2023

Questo archivio raccoglie articoli storici del nostro sito, conservando una preziosa testimonianza delle notizie e degli eventi passati.
Come utilizzare il modulo di ricerca
Il nostro modulo di ricerca è uno strumento potente che ti permette di esplorare l'archivio in modo facile e intuitivo. Puoi cercare gli articoli utilizzando diversi criteri:
  • Inserisci parole chiave o frasi specifiche per trovare articoli che trattano gli argomenti di tuo interesse.
  • Se stai cercando articoli scritti da un autore specifico, puoi inserire il suo nome per visualizzare tutte le sue pubblicazioni presenti nell'archivio.

Turchia, il trionfo di Erdoğan smonta le vecchie narrative

La conferma del presidente alla guida del Paese mostra una geografia del voto molto più uniforme rispetto al passato e conferma la capacità dell’Akp di monopolizzare il voto confessionale

Il dato che emerge dalle elezioni presidenziali tenutesi in Turchia domenica 24 giugno è uno solo: Recep Tayyip Erdoğan ha vinto. Il voto verrà probabilmente ricordato come un momento storico per il Paese in relazione al suo indiscusso leader, uscito ancora più forte dalle urne.

Erdoğan, infatti, è stato confermato capo dello Stato, carica che detiene ormai dal 2014 (dopo esser stato premier ininterrottamente dal 2003 a proprio il 2014), con un netto 52,7% dei consensi, evitando quindi un ballottaggio che in ogni caso non avrebbe dovuto mettere in dubbio la sua posizione. Un successo che è prima di tutto personale, visto che il suo Akp (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) ha perso oltre 7 punti rispetto alle elezioni del novembre 2015, fermandosi al 42,4% e avrà la maggioranza in Parlamento soltanto grazie all’alleanza con il partito nazionalista Mhp e con gli ultranazionalisti-islamisti di estrema destra del Bbp, una formazione considerata vicina ai Lupi Grigi. Complessivamente, la coalizione ha raccolto il 53,6% dei voti, pari a 342 seggi su 600, lasciando alle opposizioni, guidate dal Partito Popolare Repubblicano (Chp) e dal suo candidato Muharrem İnce, solamente 191 seggi.

Nel Parlamento turco trova un posto anche il Partito Democratico dei Popoli, il filocurdo Hdp, che ha scelto di presentarsi da solo e che ha visto il proprio leader, Selahattin Demirtas, condurre la campagna elettorale dal carcere in cui è rinchiuso da due anni. Superata la soglia di sbarramento, per l’Hdp saranno 67 i parlamentari.

Ciò che colpisce ancora di più, al netto dei numeri assoluti, è la geografia del voto: per anni, infatti, si è raccontato di una Turchia sostanzialmente divisa in due, con le campagne (la cosiddetta “Turchia profonda”) molto favorevoli a Erdoğan e le principali città della costa occidentale schierate contro il Sultano. Questa volta, invece, la vittoria di Erdoğan è netta in tutto il paese, con limitate eccezioni nell’estremo ovest e nell’estremo est a maggioranza curda. Chiara Maritato, ricercatrice della Boğaziçi University di Istanbul, nel dipartimento di Scienza Politica, spiega che «questa spiegazione, che per molto tempo è stata riportata anche all’estero, oggi rimane vera solo in parte. Questa vittoria ha almeno due ragioni: la prima è la forte migrazione a livello storico che è avvenuta dalle campagne, che è iniziata già dagli anni Sessanta che però non ha portato a una piena condivisione di spazi urbani, intesi come spazi culturali, politici, pubblici oltre che fisici, tra la popolazione urbana e quella che si definisce ancora come “Turchia profonda”, delle campagne. Inoltre l’Akp non è soltanto rappresentante di questa “Turchia profonda” intesa come arretrata, rurale e più conservatrice giunta in città dalle campagne, perché a questo elettorato si affianca anche quello di una borghesia urbana profondamente conservatrice che in questi 16 anni si è arricchita entrando nelle istituzioni ed è diventata di fatto una nuova élite al potere. Questo cambiamento, che ovviamente è iniziato già negli anni Novanta, con l’avvento al potere di Erdoğan ha avuto un balzo, un’accelerazione profonda».

Per effetto della riforma costituzionale del 2017, che ha portato all’abolizione della carica di primo ministro e alla nascita di una repubblica presidenziale, la Turchia di oggi e quella di domani sono pienamente nelle mani di Erdoğan, che negli anni ha reso sempre più deboli i contrappesi tipici di uno Stato democratico, dall’indipendenza della magistratura alla libertà d’informazione. In questo senso, parlare di una svolta sarebbe sbagliato, perché a prevalere sembra la continuità di un percorso di rafforzamento che per i critici è una strada verso un autoritarismo compiuto.

Non si può tuttavia negare che la Turchia sia un Paese in trasformazione e che il voto ne sia una testimonianza: la Turchia moderna, infatti, è stato un Paese fortemente laico, anche de iure, ma gli ultimi 15 anni hanno segnato la tendenza verso un sempre crescente peso della dimensione confessionale. Ma quanto ha pesato il voto religioso nel voto del 24 giugno? Secondo Chiara Maritato, «questo elettorato ha votato compatto per Erdoğan, vediamo che questo partito è riuscito non solo a capitalizzare, ma a monopolizzare la sfera religiosa e quindi anche il voto confessionale». Ma questo si spiega anche con la persistenza, nell’elettorato conservatore, di un vero e proprio tabù, quello del ritorno al laicismo. «Verso la fine della campagna elettorale – spiega ancora Chiara Maritato – sono stati stampati dei volantini falsi con sopra il simbolo del Chp, il Partito repubblicano del popolo, nei quali si diceva che se quel partito avesse vinto le elezioni avrebbe reintrodotto il divieto del velo. Ince, il candidato del Chp, ha dovuto smentire la cosa, ma questo fa notare come ancora oggi la paura di una reintroduzione di un laicismo di Stato così forte come fu negli anni Ottanta e Novanta, soprattutto dopo il colpo di Stato nel 1997, unisca l’elettorato».

Interesse geografico: