Rosa Louise Parks, la madre del movimento dei diritti civili
05 aprile 2018
L’atto di disobbedienza della sarta di Montgomery, che sull’autobus non cedette il suo posto per far sedere un bianco, era radicato in una fede robusta e in una lunga militanza contro la segregazione razziale
Prosegue la serie di articoli dedicati al mondo di Martin Luther King, a 50 anni esatti dalla morte. Dopo il pezzo del pastore Italo Benedetti che ricostruisce il backgroud culturale e spirituale che portò il giovane King a diventare il paladino dei diritti civili, il contributo del professor Massimo Rubboli, docente emerito di Storia dell'America del Nord all’Università di Genova, che propone di rileggere M. L. King al di là della costruzione del mito che ne ha fissato l’immagine al famoso discorso pronunciato nel 1963 “I have a dream”, offuscando la figura radicale che King fu negli anni seguenti, l'intervista al pastore battista David E. Goatley, direttore esecutivo della Lott Carey International e membro del Consiglio direttivo della National Association for the Advancement of Coloured People, la più antica organizzazione per i diritti civili degli afroamericani, sull’eredità di M. L. King alla prova del razzismo ancora vivo negli Stati Uniti d’America, oggi è il turno di Marta D' Auria con questo ritratto di Rosa Park, donna di fede e convinta attivista, il cui gesto politico di non cedere il posto sull’autobus ad un bianco diede inizio al famoso boicottaggio dei mezzi di trasporto pubblici a Montgomery, ed è il turno del pastore Massimo Aprile con una riflessione sul carattere redentivo della sofferenza immeritata nella vita e nel pensiero di M. L. King. Chiuderà la serie domani un articolo di Maurizio Girolami che ci restituirà un’istantanea di cosa accadeva in Italia, in particolare nelle chiese italiane, nell’anno in cui veniva assassinato King.
Buona lettura!
«Le persone dicono sempre che non ho ceduto il mio posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente o non più di quanto non lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro. Non ero vecchia, anche se alcuni hanno un’immagine di me da vecchia allora. Avevo 42 anni. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire», così scrive nella sua autobiografia (Rosa Parks: My Story), la sarta di Montgomery (Alabama) ricordando quel famoso 1 dicembre 1955, in cui tornando a casa in autobus dopo una lunga giornata di lavoro, si rifiutò di cedere il suo posto per far sedere un uomo bianco.
Quell’atto di disobbedienza, che le costò l’arresto e la condanna per aver violato le leggi di segregazione razziale della città, non nasceva dal nulla ma era radicato in una fede robusta – fin da piccola la lettura della Bibbia e la preghiera avevano sostanziato la sua fede, e ispirato le sue scelte quotidiane – e in una lunga militanza contro il sistema di oppressione razziale. Negli anni ‘30 Rosa Louise, insieme al marito Raymond Parks (di 10 anni più anziano, membro di lunga data della National Association for the Advancement of Colored People, incoraggiò la moglie diciannovenne che aveva lasciato gli studi per accudire la mamma e la nonna malate, a conseguire il diploma di scuola superiore), aveva preso parte alla campagna per la liberazione dei 9 ragazzi di Scottboro, ingiustamente accusati di stupro; nel 1943 aveva aderito alla Naacp, diventando la segretaria del responsabile della sezione di Montgomery, E. D. Nixon, noto in città come avvocato per i neri che volevano registrarsi per votare. A metà del 1955 aveva iniziato a fare volontariato presso la Highlander Folk School, un centro educativo per i diritti dei lavoratori e l’uguaglianza razziale. Il rifiuto di Rosa Parks a cedere il posto era dunque il gesto politico di un’attivista consapevole, addestrata alla pratica della nonviolenza e sostenuta dalla fede che, nel riconoscere la sovranità di Dio sulla propria vita e sul mondo, sa che «bisogna obbedire a Dio anziché agli uomini» (Atti 5, 29).
In precedenza erano state arrestate altre 4 donne per aver opposto lo stesso rifiuto: Claudette Colvin, 15 anni; Aurelia Browder, 35 anni; Mary Louise Smith, 18 anni; Susie McDonald, settantenne. Ma oltre ad essere screditabili per diverse ragioni, esse non avevano la stessa formazione e consapevolezza della sarta di Montgomery: Rosa, donna istruita, rispettabile, lavoratrice irreprensibile, era la persona giusta in quel momento per mobilitare la comunità afroamericana contro le odiose leggi razziali. Portata in prigione, fu liberata la sera stessa grazie alla cauzione pagata dall’avvocato bianco antirazzista, Clifford Durr. Il processo fu fissato per il 5 dicembre, giorno in cui iniziò lo storico boicottaggio degli autobus di Montgomery. Ad ideare quella straordinaria mobilitazione di resistenza nonviolenta fu un’altra donna: Jo Ann Robinson, presidente del Women’s Political Council, un’associazione femminile afroamericana, che non appena seppe dell’arresto di Rosa Parks produsse un breve comunicato anonimo, nel quale era riportato l’appello ai cittadini neri a non prendere gli autobus il 5 dicembre. Il volantino fu stampato nella notte in migliaia di copie e distribuito il giorno seguente. I volantini vennero lasciati presso le scuole e i negozi, e la notizia si diffuse a tappeto grazie alle associazioni locali, alle chiese e i loro pastori, e alla fitta rete di donne attiviste della città. Soprattutto le parrucchiere e le estetiste (le beauticians) erano attiviste dei diritti civili: molte di loro facevano parte della Naacp e, nello spazio intimo dei loro saloni di bellezza, mentre facevano una messa in piega, incoraggiavano altre donne alla mobilitazione e alla registrazione elettorale.
La partecipazione al boicottaggio di Montgomery, che ebbe nel giovane pastore battista M. L. King il suo leader carismatico, superò tutte le aspettative. Per un anno intero (il boicottaggio terminò il 21 dicembre 1956, dopo 381 giorni), circa quarantamila afroamericani non utilizzarono il trasporto pubblico e si organizzarono cercando di condividere le automobili e, nella maggioranza dei casi, camminando chilometri per andare al lavoro. Il 13 novembre 1956 la Corte Suprema degli Stati Uniti decretò che la segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblici era incostituzionale. Un enorme successo, eppure da allora Rosa non ebbe vita facile: perse il lavoro e dovette fronteggiare continue minacce. Per la sua fama di attivista, nessuno le offrì più un posto di lavoro e, insieme al marito Raymond Parks fu costretta a trasferirsi a Detroit dove i due ricominciarono da zero. Entrambi continuarono il loro impegno per i diritti della comunità nera d’America e Rosa fu spesso invitata a convegni e incontri, ma senza trovare un lavoro pagato decentemente. Solo nel 1965 fu assunta come segretaria del membro del Congresso John Conyers.
Negli anni ’60 lavorò al fianco del movimento del Black Power, e fu una delle prime oppositrici della guerra del Vietnam; fece parte della Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà. Nel 1980, protestò contro l’apartheid in Sudafrica, e si oppose alla politica degli Stati Uniti in America centrale. Nel 1987 fu fondato il The Rosa and Raymond Parks Institute Of Self-Development che offre formazione professionale a giovani afroamericani. Nel 1999 ottenne la Medaglia d’oro del Congresso, il più alto riconoscimento civile conferito dagli Stati Uniti. Due anni dopo il presidente George W. Bush volerla incontrare, ma lei, che per tutta la vita rimase un’incrollabile attivista del Partito democratico e una delle voci più ascoltate del movimento dei diritti civili americano – declinò educatamente l’invito.
Il 24 ottobre 2005 all’età di 92 anni moriva «la madre del movimento dei diritti civili», lasciandoci in eredità la testimonianza di una vita che, sostenuta dalla fede nel Dio che libera e salva il suo popolo, fu interamente spesa per la giustizia e la pace.