Cresce la violenza in Camerun
08 marzo 2018
Gli scontri tra esercito e separatisti nelle regioni occidentali del Paese rischia di arrivare a un punto di rottura, oltre la capacità degli attori internazionali e religiosi di impedire una nuova escalation. Intervista con Luca Attanasio
Una nuova settimana di coprifuoco nelle regioni anglofone del Camerun, dove la situazione sembra essere precipitata. Già dall’ottobre dello scorso anno i separatisti della zona di Ambas Bay, nella parte occidentale del Paese, avevano proclamato la nascita della Repubblica di Ambazonia, andando incontro a una pesante repressione. La violenza, che è rimasta latente da allora, sembra essere esplosa in queste ultime settimane portando a nuove azioni di gruppi armati e a una crescente tensione lungo il confine con la Nigeria.
«Purtroppo – esordisce Luca Attanasio, giornalista esperto di Africa e religioni – gli effetti mefitici del periodo coloniale lasciano ancora tracce in Africa. Una di queste situazioni è proprio il Camerun, che è stato tedesco fino alla prima Guerra Mondiale e che poi, finita la Grande Guerra, è stato spartito».
Le radici del conflitto vanno cercate lì?
«Una parte dell’attuale Camerun venne affidata al Regno Unito, un’altra invece alla Francia. La parte più vicina alla Nigeria, quindi le regioni del Nord-Ovest e del Sud-Ovest, era ed è rimasta per anni sotto il dominio del Regno Unito e quindi ha ereditato tutto: la lingua, il sistema scolastico, il sistema giudiziario, mentre l’altra è andata sotto il dominio francese e ne ha ereditato interamente i vari sistemi. Purtroppo, al momento dell’indipendenza intorno agli inizi degli anni Sessanta le divisioni sono emerse in maniera più netta, ma si è proceduto a una unificazione che per molti era ed è la soluzione migliore. Il fatto è che con Yaoundè capitale il Camerun è sostanzialmente un Paese francofono a tutti gli effetti, ed è chiaro che in quella regione si è continuato a parlare inglese, si è continuato ad avere dei sistemi che rispondevano a quello originario inglese. Tutto ciò ha creato un po’ di problemi, perché è difficile gestire regioni che sono così diverse. Un esempio molto pratico: gli anglofoni lamentano che i segnali stradali e la toponomastica sono espressi in francese, mentre i bambini parlano inglese fin dal primo giorno. Certo, ci sono evidentemente problemi molto più seri, e ora, la situazione che era rimasta sempre di tensione latente è esplosa e la situazione è decisamente precipitata».
Che cosa è cambiato?
«Il primo ottobre dello scorso anno il leader Julius Ayuk Tabe aveva proclamato la repubblica indipendente di Ambazonia. A ridosso di quel giorno ci sono state imponenti manifestazioni in tantissime città, anche al di fuori della regione anglofona, che sono state represse anche piuttosto violentemente, poi subito dopo la repressione si è fatta ancora più seria. Qualche settimana fa il nuovo leader indipendentista, Sako Ikome Samuel, che è succeduto a Tabe, che invece si trova in carcere assieme a tanti leader del movimento dopo essere stato arrestato in Nigeria e poi estradato in Camerun, ha dichiarato pubblicamente di voler ricorrere alle armi per autodifesa personale e comunitaria. In realtà lo si faceva già nei fatti, ora è proprio stato ufficializzato».
Che tipo di risposta ha fornito il governo di Yaoundé?
«Diciamo che la risposta non si è fatta attendere: il pluridecennale e longevissimo presidente Paul Biya, al potere dagli inizi degli anni Ottanta, uno dei più longevi d’Africa, ha imposto il coprifuoco, con la limitazione di movimento per tutti i cittadini delle regioni anglofone. Sono scoppiati vari scontri e una violentissima repressione ha portato a morti e feriti in ambo le fazioni, ma soprattutto a una situazione di grandissimo allarme in tutta la zona che ha costretto circa 45.000 persone a fuggire. L’Unhcr a quel punto ha dichiarato lo stato di emergenza al confine e soprattutto nella parte nigeriana del confine, dove stanno arrivando ogni giorno centinaia, migliaia di persone terrorizzate da quello che sta avvenendo. Insomma, siamo in una situazione di conflitto reale, non più soltanto latente, e un’altra cosa molto preoccupante è che questi profughi che hanno superato il confine vanno a inserirsi in una situazione già molto precaria e tesa come quella nigeriana. Non dimentichiamoci che in Nigeria c’è una grossa questione legata al terrorismo di Boko Haram e ci sono grosse tensioni tra le comunità di pastori e quelle dei coltivatori per ragioni legate alla terra, provata da anni di siccità, peraltro provocata in gran parte proprio dalle tensioni con Boko Haram, che non permette per esempio di coltivare tantissimi appezzamenti di terreno. Insomma, la situazione, che è già particolarmente complessa, viene resa ancora più complicata da questa ondata di profughi».
Qual è la posta in gioco?
«C’è una questione di difficoltà di vita e di non riconoscimento dei propri diritti. Da parte degli indipendentisti si chiede da tantissimo tempo un sistema scolastico realmente rispondente alle esigenze della popolazione, la cui stragrande maggioranza è anglofona. Inoltre si chiede un sistema giuridico e di gestione della cosa pubblica più vicino a quello che è stato per più di un secolo. Queste richieste sono sempre state solo parzialmente accolte, se non addirittura ignorate, e questo ha creato molta tensione e anche un senso di frustrazione sempre più ampio all’interno della popolazione anglofona, che non si sente per niente riconosciuta».
Spesso quando ci si occupa di conflitti che avvengono in Paesi che sono stati colonie è necessario interrogarsi sul ruolo che possono giocare gli attori internazionali, in particolare nella risoluzione delle controversie. In questo caso chi dovrebbe farsi carico di questo ruolo?
«Credo che l’Unione Africana sia la più indicata ad aiutare la situazione e a prendere una posizione. Per il momento la Nigeria, a cui si rivolgono gli anglofoni per evidenti motivi, in realtà è molto più vicina al presidente Paul Biya e infatti per esempio ha accettato di estradare tutti i leader che erano in esilio in Nigeria. Potrebbe occuparsi della questione anche l’Onu, il cui intervento è stato invocato, ma come sappiamo non sempre le Nazioni Unite hanno quel successo che si auspica».
Le chiese presenti sul territorio sono coinvolte nella questione?
«Certo, le chiese stanno cercando di mediare. Parlo di chiese di varie confessioni, perché nella parte anglofona gli anglicani, ma anche i cattolici di lingua inglese sono molto presenti e molto attivi. In particolare, i vescovi cattolici hanno più volte preso posizione contro la violenza e a favore di un dialogo, per recepire le istanze della minoranza anglofona e per evitare spargimenti di sangue gravemente dannosi. È interessante che diversi vescovi chiedano di ritornare al sistema federale precedente all’arrivo al potere di Paul Biya, un sistema che prevederebbe una maggiore autonomia. Ecco, forse già questa sarebbe una soluzione, peraltro praticabile perché non si parlerebbe di smembramento del Paese, ma soltanto di un federalismo non so quanto spinto però comunque più rispettoso».
È una fase storica in cui alcuni “uomini forti” in diverse parti del mondo portano avanti le loro politiche senza ascoltare gli appelli che provengono dal mondo religioso, soprattutto nel campo della gestione dei conflitti. È il caso per esempio delle Filippine, dove i costanti richiami della chiesa cattolica a Rodrigo Duterte per ridurre i livelli di violenza extragiudiziale vengono sistematicamente ignorati e dileggiati. Nel contesto del Camerun invece le chiese spostano ancora gli equilibri?
«Diciamo che le chiese richiamano l’attenzione, ma per il momento gli equilibri non li hanno spostati. Tuttavia, il continuo ritorno agli appelli e il fatto che in alcune situazioni gli organismi ecclesiali si mettano proprio in mezzo, a mediare tra le parti e richiamando al dialogo, per lo meno costringe Paul Biya, che si dice cattolico e legato a quella tradizione, a prestare almeno un po’ più di attenzione a certe istanze. Purtroppo lì c’è anche, geopoliticamente parlando, la Francia. Ecco, Paul Biya è molto sicuro di questo appoggio incondizionato di Parigi, e questo conferma quanto l’effetto mefitico del regime coloniale si faccia ancora sentire».