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L'ossessione per il controllo

Negli ultimi anni, nel nome della lotta alla corruzione e dell’ideale del consenso, il governo cinese ha costruito un sistema sempre più elaborato per fare in modo che non si esca mai dal recinto dettato da regole variabili

Alla fine del 2016 il primo episodio della terza stagione di Black Mirror, una serie distopica britannica, ipotizzava un mondo in cui ogni cittadino può dare un punteggio agli altri in base alle interazioni sociali, influenzando con il proprio giudizio il loro status socioeconomico. Queste narrazioni di “presenti alternativi”, tipiche di autori come Philip K. Dick, James Ballard o più di recente Marguerite Atwood, sempre più spesso diventano strumenti con cui il giornalismo racconta scenari reali. Questo sembra il caso del “social credit” cinese: dall’edizione americana di Wired fino al Telegraph, in molti hanno usato frasi come Black Mirror diventa reale in Cina per descriverlo. La storia però non è nuovissima, visto che già nel 2014 il governo cinese aveva annunciato un piano per la sua istituzione con orizzonte 2020. «Allora – racconta il giornalista Gabriele Battaglia, che vive e lavora a Pechino – questa circolare del Consiglio di Stato, ovvero del governo cinese, si intitolava Pianificazione per la costruzione di un sistema di credito sociale. Questo documento diceva che entro il 2020 la Cina avrebbe cercato di costruire una specie di sistema elettronico e informatico che assegnava dei voti a tutti i cittadini nelle loro attività online, dal comprare o vendere merci sui siti di ecommerce al pubblicare contenuti sui social media, fino al pagare bollette. Da questo complesso di attività sarebbe venuto fuori un punteggio, che servirà a valutare la persona come cittadino e consumatore, in base a quale essere premiati o puniti». Molto ruota intorno ai concetti di affidabilità e fiducia, parzialmente sovrapponibili in un sistema centrato sul controllo.

Il sistema del social credit, infatti, per quanto capace di colpire l’immaginario, non è che uno degli aspetti più estremi e innovativi di una visione del mondo radicata nel governo cinese: non ci si limita alla semplice sorveglianza, tipica di molti dispositivi anche in Occidente, ma si ha in qualche modo lo scopo, più o meno dichiarato, di plasmare un’adesione a un modello di uomo, di cittadino, che sia “in armonia” con quello che ha in mente il governo centrale. L’imperatore-partito ha bisogno di spazi ben definiti, ben delimitati, un po’ come quelli disegnati dall’urbanistica, e solo al loro interno le cose possono funzionare. «La Cina – prosegue Battaglia – è una società ossessionata dal controllo, ossessionata dall’ordine, terrorizzata dal disordine, che non è come da noi sinonimo di creatività, ma solo di rottura di un’armonia e quindi di anticipazione di un futuro collasso della società. Il potere cinese, per tradizione già della Cina imperiale, cerca di mantenere un ordine che non è facile da mantenere in una società da un miliardo e quattrocento milioni di persone altamente stratificata, in cui ci sono tante diverse Cine».

Se il social credit, come detto, è la manifestazione più vistosa di questo mondo, il sistema giudiziario ne è la più invisibile: la Cina, infatti, è un Paese in cui ci sono almeno quattro differenti sistemi extralegali di detenzione, che non prevedono il carcere, ma un “soggiorno in strutture designate” per periodi più o meno brevi, in seguito ai quali si ritorna solitamente in pubblico con una confessione scritta o televisiva. «Questi quattro sistemi di detenzione – ricorda Battaglia – sono sempre più elaborati. Un sistema ormai tradizionale che si accompagna alla campagna anticorruzione contro i funzionari del Partito stesso è il cosiddetto Shuanggui, un metodo per cui al funzionario di turno viene intimato di presentarsi un dato giorno a una data ora in un determinato luogo, quindi scompare per un certo periodo. Non si sa dove venga detenuto, non si sa bene cosa gli si faccia, ma poi ricompare in genere dopo qualche settimana confessando i propri misfatti». Mentre in passato questa misura veniva attuata soltanto nei confronti dei membri del Partito Comunista Cinese, nel 2012 è stata estesa a tutti i dipendenti pubblici.

Nel novembre del 2017 il difensore dei diritti umani Michael Caster ha pubblicato un libro dal titolo The People’s Republic of the Disappeared, dedicato proprio alle storie delle persone sottoposte a quella che viene definita “sorveglianza residenziale in un luogo designato” (RSDL nell’acronimo più utilizzato, in lingua inglese). «Chi ci è passato – dice Gabriele Battaglia – racconta che molto spesso è peggio della detenzione: le persone vengono portate in questo luogo designato che è un luogo segreto al di fuori della protezione della legge per tutti quesi casi che mettono in pericolo la sicurezza nazionale, i casi relativi al terrorismo, i gravi episodi di corruzione e così via, quindi dà un completo arbitrio alle forze di sicurezza nei confronti dell’eventuale inquisito». Sono tre le categorie più esposte a questo trattamento: da un lato proprio i difensori dei diritti umani, che hanno denunciato le torture subite durante la detenzione in queste strutture, gli oppositori interni al partito e le élite economiche, soprattutto locali, e infine le minoranze etniche. Sono soprattutto gli uiguri, la minoranza musulmana che vive nella regione occidentale dello Xinjang, a subire questo genere di trattamento, spesso associato ai campi di rieducazione politica.

«Da quando Xi Jinping è salito al potere nel 2012 in Cina – ricorda Battaglia – è diventata di moda la locuzione “Stato di diritto”. All’inizio l’Occidente era rimasto molto impressionato da questa svolta della Cina, perché pensavano a uno stato di diritto simile al nostro, una rule of law, cioè il diritto che permea la società al di sopra dello stesso potere politico». Tuttavia, presto si è capito che l’accezione cinese dello “Stato di diritto” era quella che di solito si definire rule by law, ovvero il diritto come strumento di un governo non sottoposto alle regole della legge, trasformando quindi il diritto in strumento di governo. «Noi però – conclude Battaglia – facciamo dei bei discorsi, ma abbiamo la coscienza sporca, basti pensare alla extraordinary rendition, quel modello che gli Stati Uniti hanno applicato durante la “guerra al terrore” per cui semplicemente le persone venivano fatte sparire e sottoposte a tortura, quindi è difficile per noi insegnare alla Cina cosa si possa fare e cosa no».

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