Polonia, fino a tre anni di carcere per chi parla di “campi di sterminio polacchi”
30 gennaio 2018
La legge voluta dal governo nazionalista ha scatenato la reazione indignata di Israele. La questione è davvero complessa e non va semplificata, secondo il pastore Pawel Gajewski
Verità storica e verità giudiziaria, soprattutto quando si parla di vicende che toccano in profondità l’identità di un Paese, sono spesso non allineate. In Polonia questo è particolarmente sentito, se non particolarmente vero, per il dibattito sui campi di lavoro e sterminio creati dai nazisti nei territori occupati su quella che era prima, ed è oggi, la Polonia. Al centro dell’ultima legge approvata dal Parlamento di Varsavia su proposta del governo guidato dal partito nazionalista Diritto e giustizia (PiS), al potere dal 2015, è l’aggettivo “polacco” a proposito di questi campi. Sono molti i campi di sterminio nazisti presenti in Polonia, ma finora non è mai stata dimostrata l’attiva e ufficiale collaborazione del governo polacco di allora con la Germania nazista, che decise di spartirsi il territorio con la Russia secondo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939.
Questa definizione rappresenta un nervo scoperto per molti, al punto che il partito di maggioranza ha deciso di vietarne l’uso per legge. «Questo provvedimento – spiega Pawel Gajewski, pastore della Chiesa metodista di Terni – prevede sanzioni penali per chi usa pubblicamente espressioni come “campi di sterminio polacchi” o “campi di sterminio in Polonia”». In attesa della firma del presidente Andrzej Duda, questa norma sta già suscitando le prime reazioni, tra cui spicca quella del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che ha affermato di non essere disposto «ad accettare verità distorte, la riscrittura della storia e la negazione dell’Olocausto».
Su quali assunti si basa questa norma?
«La legge precisa, in una sorta di premessa di carattere storico, che per tutti i campi di concentramento, tutti i campi di sterminio di cui il territorio dell’attuale Polonia è veramente costellato, perché non ci sono solo Auschwitz e Birkenau, ma ce ne sono almeno 4 o 5, la dicitura corretta dovrebbe essere sempre “campi di concentramento” o “campi di sterminio nazisti sui territori occupati della Polonia”. Qualunque sbavatura, qualunque errore consapevole o meno, quindi qualsiasi uso di una dicitura diversa da quella ufficiale, può far scattare addirittura sanzioni penali e può essere perseguita dagli organi di giustizia ordinaria».
A oggi non è emersa alcuna prova di una “natura polacca” dei campi di sterminio nazisti sul territorio dell’attuale Polonia, ma questa legge in qualche modo non rischia di voler trasferire su un terreno di scontro politico la ricerca della verità?
«Il problema è davvero complesso. Certe informazioni false e tendenziose non sono una novità: già ai tempi del governo guidato da Donald Tusk ogni tanto compariva, più che altro sulla stampa estera, qualche articolo che utilizzava espressioni come “campi di sterminio in Polonia” o “campi polacchi”, ma il governo Tusk ha sempre preferito un’azione diplomatica, proteste internazionali, senza prendere in considerazione una proposta di legge. Il governo attuale ha scelto una strada diversa, che personalmente non condivido perché il rimedio è assolutamente sproporzionato rispetto al male».
Ma il problema è reale?
«Sì, il problema c’è. Alcuni giornalisti usano espressioni scorrette anche volutamente, però la questione della partecipazione o non partecipazione della popolazione polacca allo sterminio degli ebrei è una questione complessa, la responsabilità penale è sempre personale e dunque nell’immediato dopoguerra diversi ufficiali, anche della polizia locale polacca, che ha collaborato allo sgombero dei ghetti di Varsavia, Cracovia, di Łódź, di molte altre città polacche, sono stati condannati a pene detentive dai tribunali polacchi, perché appunto hanno esagerato, per usare un’espressione delicata, nell’esercizio delle proprie funzioni».
La questione non è solo di verità giudiziaria, ma anche di verità storica. Si può dire che a distanza di 73 anni sia ancora tutt’altro che chiusa?
«Certo, infatti il problema è che lo Stato di Israele, così come lo stesso Yad Vashem, dove tra i nomi dei Giusti tra le Nazioni i nomi dei polacchi e delle polacche sono tra i più numerosi, continua a svolgere le ricerche su quello che è successo realmente. Mi viene in mente il film di Roman Polański, Il Pianista, in cui attraverso una narrazione veramente sublime si presentano varie tipologie di polacchi: persone eroiche che hanno rischiato la propria vita e addirittura l’hanno sacrificata per salvare gli ebrei dallo sterminio, persone che lo facevano semplicemente per motivi economici, e persone che hanno collaborato attivamente con l’occupante tedesco. La verità, quella storica, è veramente molto complessa».
Uno dei primi effetti diretti di questa legge è stato irritare il governo israeliano. La reazione è sdegnata, forse un po’ scomposta nei modi. Ma perché il governo di Netanyahu ha reagito così?
«La reazione del governo Netanyahu è forse esagerata e sproporzionata rispetto alla portata della legge stessa, che più che altro ha un significato più simbolico che reale: diversi giuristi sostengono che anche se si venisse a sapere di un reato, secondo questa legge, commesso da un giornalista non polacco, è praticamente impossibile perseguire penalmente una persona, però il governo israeliano ha delle ragioni, almeno per due motivi. Prima di tutto è una questione di ricerca storica: qualora dovessero emergere nuovi documenti, nuovi fatti relativi agli anni 1940-1945, se dovessero emergere documenti in grado di attestare chiaramente la responsabilità non del popolo polacco ma di alcuni cittadini polacchi nello sterminio degli ebrei, ecco che si creerebbe un problema legale, perché in base a questa legge si potrebbe addirittura vietare in Polonia la pubblicazione di un articolo scientifico, addirittura di un’inchiesta o denuncia in cui, ipoteticamente, potrebbe essere affermato e documentato un fatto grave, un reato grave di collaborazione attiva con l’occupante tedesco».
Qual è il secondo motivo?
«Ecco, la seconda questione è di grande attualità, riguarda la crescente ondata di antisemitismo in Polonia, che è come si è visto anche l’11 novembre scorso assume già i livelli di guardia. L’estrema destra polacca, appoggiata ormai ufficialmente dal governo in carica, ha rispolverato i vecchi slogan antisemiti proprio risalenti agli anni Trenta, slogan che erano in qualche modo capisaldi dei programmi politici dell’estrema destra dell’epoca. Credo che in questo caso anche le preoccupazioni del governo israeliano al di là del tono, della forma, siano giustificate perché, lo ripeto e mi spiace veramente doverlo dire, l’antisemitismo in Polonia sta rinascendo».
Quale ruolo giocano le chiese nel fare da argine a questo clima d’odio?
«Da quello che mi risulta dalle ultime ricerche, non c’è nessuna presa di posizione esplicita, ufficiale, della conferenza episcopale polacca, che però già da mesi cerca di mettere in guardia contro questa crescente ondata di nazionalismo e di posizioni estreme, ma bisogna dire che la conferenza episcopale polacca ha comunque fatto il suo dovere, anche se con toni molto diplomatici e molto ponderati. Posso invece portare un esempio veramente virtuoso di una piccola rivista che si chiama Jednota, sarebbe più o meno l’equivalente della parola italiana “comunità”, è la rivista ufficiale della Chiesa Riformata polacca che invece sin dall’inizio, sia di fronte al dibattito sulla responsabilità o non responsabilità dei polacchi per lo sterminio degli ebrei, sia di fronte alle manifestazioni dell’11 novembre scorso, ha sempre preso delle posizioni molto chiare a favore del dialogo, a favore di una riconciliazione vera e non fatta soltanto di parole o di proclami. Posso dire che ogni chiesa polacca, in misura diversa, sia attiva in questo dibattito sostenendo sempre la necessità del dialogo e della riconciliazione».