Si è conclusa sabato 18, un giorno dopo la chiusura prevista, la 23° Conferenza sul cambiamento climatico (Cop) iniziata il 6 novembre a Bonn, in Germania, sotto la presidenza delle Isole Fiji, tra le nazioni più vulnerabili al mondo di fronte ai cambiamenti climatici.
Stante il posizionamento del presidente Usa, peraltro in contrasto con quello di diversi Stati e città del Paese, l’Europa si trova ad avere un ruolo maggiore nell’indirizzare le strategie energetiche volte a frenare il cambiamento climatico di cui si cominciano a vedere gli effetti anche nelle zone temperate del pianeta.
Si ricorda che al G20, che si è tenuto a luglio ad Amburgo, in Germania, 19 membri del G20 (18 Stati più l’Unione europea) si sono impegnati a rispettare gli accordi di Parigi (Cop 21). L’unico paese che non ha sottoscritto questa decisione sono gli Stati Uniti, rappresentati dal presidente Donald Trump.
Fino a qualche tempo fa, un aumento di 2 °C della temperatura media globale era considerato la soglia oltre la quale c’è la catastrofe: copiosa riduzione dei ghiacci ai poli, innalzamento dei mari al punto da rendere inabitabili ampie aree costiere e causare decine di milioni di sfollati. Dice già molto il fatto che con l’accordo di Parigi i 2 °C siano diventati l’obiettivo entro il quale mantenersi (c’è un impegno per provare a restare sotto gli 1,5 °C), nonostante i rischi. Ai ritmi attuali di produzione di anidride carbonica derivante dall’attività umana (CO2, tra i gas serra più dannosi), le Nazioni Unite prevedono che l’aumento della temperatura media globale sarà di 4 °C all’inizio del prossimo secolo. Come tutte le proiezioni, ci sono margini di errore: nello scenario più pessimistico potremmo arrivare a +8 °C rispetto alla media.
In Italia le precipitazioni annuali nel 2016 sono state complessivamente inferiori alla media di circa il 6% e il valore medio nazionale di “umidità relativa” in media di -2.4%. Rappresenta il quarto valore più basso dal 1961.
Questa Cop si colloca nel cammino verso l’applicazione degli Accordi di Parigi prevista per il 2020. Nel frattempo i Paesi hanno dichiarato cosa intendono fare dopo quella data nell’ambito dell’accordo, cioè i propri impegni nazionali (Intended Nationally Determined Contributions – Indc) al fine di mantenere la media dell’innalzamento climatico sotto i 2 °C cercando di limitarla all’1,5 °C e di arrivare ad azzerare le emissioni di gas serra nella seconda parte del secolo.
Dalla Cop23 si aspettava l’approvazione dei decreti attuativi degli Accordi di Parigi, ma dopo una settimana di colloqui non c’è stata nessuna approvazione.
Si è convenuto che gli Indc erano insufficienti, ma invece di modificarli si è lanciato il “dialogo di Talanoa” in vista di Cop 24 a Katowice in Polonia: un dialogo tra chi è veramente disponibile, e da portare avanti senza soluzione di continuità.
Talanoa è una parola della lingua fijiana, che indica un confronto costruttivo, senza giri di parole; l’ha introdotta il premier delle isole Fiji, presidente di Cop 23, sperando che lo spirito indigeno riesca dove le complicate diplomazie istituzionali hanno fallito. Il premier ha concluso il suo intervento dicendo: «siamo tutti sulla stessa canoa».
Anche stavolta si è bucato sulla questione degli impegni finanziari per prevenire le catastrofi ambientali nei paesi poveri; questi chiedevano una programmazione del sostegno su un arco temporale di dieci anni per programmare gli interventi necessari. La risposta è stata che l’attuale fase economica non può dare sicurezza di impegni futuri. Ci sarebbe da osservare che è proprio per questo che l’attuale sistema economico non funziona.
“Low carbon”, “green” e “circolare” sono i termini che si danno le imprese che nel mondo dichiarano di investire nella transizione energetica, mentre non cessa il finanziamento pubblico al settore delle energie fossili: le stesse nazioni che partecipavano al summit di Amburgo, secondo il report Talk is Cheap: How G20 Governments are Financing Climate Disaster, forniscono quattro volte più fondi pubblici alle fonti fossili che alle rinnovabili.
Stando al rapporto, il Giappone rimane il principale finanziatore per i combustibili fossili con 16,5 miliardi di dollari l’anno stanziati tra il 2013 e il 2015 rispetto a 2,7 miliardi di dollari l’anno a sostegno dell’energia pulita. Al secondo posto c’è la Cina con 13,5 miliardi di dollari annui di fondi pubblici per i combustibili fossili rispetto a meno di 85 milioni di dollari ogni anno per le energie rinnovabili.
E anche l’Italia (che ha annunciato di voler uscire dal carbone al 2030) ha dato il suo contributo: «in tre anni (2013-2015) – denuncia Legambiente – la penisola, attraverso i Servizi assicurativi e finanziari per export e internazionalizzazione, e la Cassa depositi e prestiti, ha destinato con 21 progetti ben 2,1 miliardi di dollari medi annui ai combustibili fossili contro i 123 milioni di dollari l’anno destinati alle energie pulite, piazzandosi all’ottavo posto nella classifica per finanziamenti pubblici a sostengo dei combustibili fossili e risultando tra i Paesi peggiori, insieme alla Germania, per la mancata corrispondenza tra lotta ai cambiamenti climatici ed i finanziamenti pubblici». Ammontano a 8,3 miliardi di euro i finanziamenti pubblici erogati da Istituzioni pubbliche, banche o Istituti di credito al settore energetico, tra il 2013 e il 2015.
Si ricorda che l’Italia nel 2017 ha definito la Strategia energetica nazionale che prevede: 175 miliardi per la crescita sostenibile, di cui 30 per reti e infrastrutture di gas ed elettrico, 35 per fonti rinnovabili e 110 per l’efficienza energetica. La Strategia propone una forte accelerazione dell’uscita completa dal carbone negli impianti termoelettrici nel 2025 e traccia la strada verso la decarbonizzazione totale, per raggiungere, rispetto al 1990, una diminuzione delle emissioni del 39% al 2030 e del 63% al 2050.
Sul piano ambientale la Strategia si prefigge di raggiungere e superare obiettivi ambientali Clima-Energia “20-20-20”
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Penetrazione delle rinnovabili nell’ ‘energy mix’ al 17,5% nel 2015 rispetto al 17% target 2020
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Consumi finali 2015 a 116Mtep, inferiori al target 2020 di 126 Mtep (con petrolio equivalente)
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Riduzione emissioni gas serra 2015 del ~16% rispetto ai livelli del 1990, superiore al target 2020 del ~10%
Coniugare la ricerca del profitto di pochi con il destino della vita sul pianeta di tutto il Creato definisce lo scenario fin qui esposto. L’ideologia economica dominante, il neoliberismo, è un pesante ostacolo ulteriore, anche per il ruolo depotenziato che associa all’intervento pubblico e la sua visione di breve periodo.
Le chiese e le organizzazioni non governative di matrice religiosa e laica stanno facendo un lavoro culturale e politico molto importante ma il segnale che arriva alla politica e all’economia è debole, seppure sostenuto dall’impegno fondamentale dell’Onu, pur con tutte le sue contraddizioni, che contempla il cambiamento climatico anche tra gli Obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030.
Lo sforzo deve essere maggiore.