Finché c’è guerra c’è speranza. Per le armi
12 luglio 2017
Con una recente proposta di legge, la Svezia intende vietare l’esportazione di armi a dittature o Paesi in guerra: in Europa e Italia ci sono già diverse leggi simili, ma vengono spesso disattese.
Negli ultimi mesi in Svezia si sta discutendo di una proposta di legge che punta a vietare la vendita di armi a dittature o Paesi che violano i diritti umani al loro interno o a Stati che abbiano in atto guerre d’aggressione. Maurizio Simoncelli, vicepresidente e cofondatore dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo afferma che anche in Italia (tra i massimi esportatori mondiali di armi) «le norme ci sono, non c’è bisogno di copiare la Svezia: il problema è rispettare la legge. Nel momento in cui vendiamo bombe all’Arabia Saudita, fatto documentato, così come il fatto che vengano usate per colpire anche obiettivi civili, stiamo infrangendo norme che già esistono. Inoltre, le esportazioni aumentano: rispetto a una media di esportazioni di qualche anno fa pari a 3 miliardi annui, nel 2015 siamo arrivati a circa 8 miliardi e nel 2016 a 15: esportando le armi dove c’è la guerra è evidente che il commercio sia florido. Finché c’è guerra c’è speranza, diceva Alberto Sordi: sembra la politica del nostro paese».
Nonostante il quadro di norme internazionali, la scelta della Svezia è un apripista?
«Sì, è una notizia molto importante, perché un paese di rilievo come la Svezia, soprattutto nel settore della produzione e nell’esportazione degli armamenti, prende una posizione precisa in merito. Non dimentichiamo che ci sono già delle norme a livello europeo che vietano queste esportazioni, come la posizione comune e ancor più il Trattato internazionale sul commercio degli armamenti, l’ATT, ratificato da decine di Paesi e in vigore da alcuni anni. Il problema è che spesso queste norme offrono in un modo o nell’altro delle scappatoie, possibilità di aggirare lo spirito della legge. Queste armi spesso arrivano in luoghi dove non dovrebbero arrivare, aggravando i conflitti e producendo migrazioni che conosciamo bene».
Quindi l’Italia sfrutta queste “scappatoie”?
«Si, ci troviamo in una situazione molto particolare: nel 1990 fu approvata una legge che era di avanguardia internazionale, e che diceva appunto che le armi non si sarebbero potute esportare a Paesi in guerra, con dittature o violazioni di diritti umani. Il problema è che sono stati fatti una serie di ritocchi e interpretazioni per cui è diventato obbligatorio non esportare solamente nel caso in cui gli organismi internazionali – come l’Onu, il Consiglio d’Europa, l’Unione europea – esprimano una valutazione dichiarando questi regimi non rispettosi dei diritti umani. Ugualmente, l’esportazione a Paesi in guerra vengono consentite qualora venga permesso dal Governo, dopo aver sentito il parere delle Camere. Ultimamente la situazione è che lo stesso Governo non rispetta la norma, ovvero non sente il parere del Parlamento: è il caso dell’esportazione in Arabia Saudita, un Paese che sta utilizzando bombe nella guerra in Yemen, o la vendita di aerei Eurofighter al Kuwait, altro Paese impegnato in questo conflitto, che secondo gli osservatori internazionali è teatro di crimini contro l’umanità».
Ci sono altre aree in cui si potrebbe evitare il commercio di armamenti?
«L’Italia da tempo sta esportando in maniera significativa verso il Medio Oriente: oltre ai casi citati, le forniture di armi in quell’area vanno a sostenere situazioni preoccupanti, come quella dell’Egitto, ma anche il Qatar, appena accusato degli Stati Uniti di essere un sostenitore del terrorismo. Se questo è vero, forse il Governo italiano dovrebbe porsi qualche interrogativo in più e, attualmente, non mi sembra che questo avvenga».