Ti lascio, ti lascio, ti lascio
22 maggio 2017
La pratica del «divorzio lampo» in uso fra i musulmani indiani messa in dubbio dalla Corte suprema
Secondo una pratica ormai consolidata da secoli d’uso, in India è sufficiente che un musulmano pronunci tre volte la parola «talaq», io divorzio da te, di fronte a sua moglie e ottiene un divorzio immediato e legale (naturalmente non vale il contrario). Quasi una formula magica, o piuttosto un maleficio per migliaia di donne musulmane che negli anni sono state buttate su una strada, senza soldi e senza casa. Oggi, con le nuove tecnologie basta un messaggio via WhatsApp, Skype o un semplice sms per privare di sostentamento mogli (e figli).
Il tutto nasce da un’interpretazione della legge islamica e del Corano bandita dalla maggior parte dei Paesi musulmani, ma accettata in India, dove i musulmani sono la minoranza più consistente, circa il 14% della popolazione, cioè più di 180 milioni, la comunità musulmana più numerosa al mondo dopo quella dell’Indonesia. Qui la Costituzione permette alla maggior parte delle religioni, compresa quella islamica, di regolamentare al proprio interno le questioni legate al diritto di famiglia (matrimonio, divorzio, eredità) dando effetto civile ai loro codici. Appoggiandosi a questo, i sostenitori del «talaq» (in primis l’organizzazione non governativa All India Muslim Personal Law Board - Aimplb, che si occupa dell’applicazione della legge islamica, shariat in India) ritengono che la questione rientri nell’ambito delle pratiche religiose e non sia argomento per le aule dei tribunali.
Diverse associazioni di donne musulmane indiane non sono di questo avviso e da anni conducono una dura battaglia per bloccare questa usanza, che prevede, tra l’altro, che il marito possa «riprendersi» la moglie solo dopo che questa si è risposata ed è stata ripudiata dal secondo marito con la medesima procedura.
Il punto di svolta è arrivato alcuni mesi fa, in dicembre, quando l’Alta Corte di Allahabad (capitale dello stato di Uttar Pradesh) si è pronunciata contro questa pratica definendola irrispettosa dei diritti delle donne, e poi in gennaio quando il Governo si è pronunciato ufficialmente dichiarandola discriminatoria e anticostituzionale (la Costituzione garantisce infatti l’uguaglianza fra uomini e donne). Lo stesso primo ministro Narendra Modi si è pronunciato in tal senso, chiedendo ai suoi sostenitori di affiancare le donne musulmane in questa battaglia. Dopo questi precedenti favorevoli, le associazioni hanno potuto presentare alla Corte Suprema le loro petizioni all’inizio di gennaio. Non era la prima volta che ciò avveniva, ma questa volta ci sono speranze verso un esito diverso.
I cinque giudici, rappresentanti le cinque maggiori comunità religiose in India (indù, sikh, parsi, musulmani e cristiani) si sono presi sei giorni per esaminare la richiesta, per decidere se tale pratica sia incostituzionale o meno. Lo scorso giovedì 18 maggio hanno concluso l’udienza, ma la sentenza sarà resa pubblica successivamente.
Intanto il dibattito e la battaglia continuano: la questione, osservano i sostenitori legali della causa delle donne, è che non basta abolire la pratica del «talaq» o estenderla alle donne, ma queste ultime devono avere la possibilità di istruirsi, di conoscere i propri diritti, avere voce in capitolo nelle questioni economiche che le riguardano. La lotta per renderle più autonome e consapevoli combattendo ignoranza e soprusi è ancora molto lunga.