I tre linguaggi del Natale e la denuncia della guerra
20 dicembre 2016
Il dramma di Aleppo interroga le Chiese e i credenti
Aleppo, una città in macerie. Per quattro anni teatro di guerra senza quartiere, assediata e bombardata. Civili che cercano di lasciare le zone di combattimento, bloccati nei check-point con la paura di finire nella mani sbagliate. Persone denutrite e disidratate, bambini malati, incolonnati nel freddo dell’inverno. Operatori umanitari che non riescono a portare soccorso e sono anch’essi bersaglio dei belligeranti. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu che sta decidendo di inviare propri osservatori, sperando possano far di più che gettare uno sguardo sulla desolazione. È difficile descrivere Aleppo, dire che cosa sta succedendo e che cosa è successo, se non attraverso una serie di scene, una carrellata di immagini che, tuttavia, guardiamo dalle nostre case e città con quella compunta indifferenza che attenua il dolore, e con quel senso di lontananza che anestetizza le nostre preoccupazioni orientate ad altri nemici e ad altre emergenze. Perché il dolore della guerra stenta a penetrare nella nostra coscienza? È la domanda di questo Natale. Un quesito non troppo originale, certo, aperto alla retorica moralista, e che ci rimanda ad altre città e altri luoghi, da Sarajevo a Srebrenica.
È colpa dell’assuefazione alle troppe notizie che riceviamo? La possibilità di essere informati in diretta su twitter e facebook da chi vive il dramma in prima persona, invece di rendere tutto più vivo e urgente, satura la nostra coscienza? Certamente c’è anche questo: ogni essere umano riesce a sopportare un certo numero di brutte notizie, a partire da quelle più vicine, oltre il quale c’è solo l’irrilevanza, indipendentemente dall’enormità di quel che sta accadendo.
La sensazione è che oggi ci sia qualcos’altro che ha a che fare con il linguaggio. È la sensazione che, sui social network e sulla carta allo stesso modo, il nostro linguaggio sia inadeguato a raccontare, a spiegare, a parlare alle coscienze. Non solo perché i comunicatori – tra i quali mi metto pure io, in quanto responsabile di un programma radiofonico – hanno le parole per informare ma non per raccontare, cioè per allargare lo sguardo oltre la nostra esperienza, ma anche perché certe parole sono uscite dalla nostra coscienza collettiva. Una di queste è: guerra. Non sappiamo più che cosa significhi, e questo avviene non perché siamo tutti diventati dei convinti pacifisti, ma perché non immaginiamo più che cosa essa descriva, con difficoltà cogliamo il nesso tra questa parola e ciò che accade ad Aleppo e in tanti luoghi insanguinati della terra. Altrimenti, se sapessimo davvero che cosa significa la parola guerra, non lasceremmo montare in Europa una rabbia piena di rancore; non lasceremmo che l’animosità delle proteste venga cavalcata e legittimata. È per questo che non rabbrividiamo al rafforzamento dei confini nazionali, alle minacce di chiusura delle frontiere, all’innalzamento di muri divisori che alcuni salutano addirittura con approvazione perché fermerebbero l’invasione di migranti.
L’uscita dalla nostra coscienza della parola guerra si nota anche a livelli più avvertiti. Pensiamo all’affermazione ingenuamente avanzata da alcuni – devo dire che all’inizio ci sono caduto anch’io – per cui questo Cinquecentenario della Riforma protestante sarà il primo a venir festeggiato in un’atmosfera di pace. Il riferimento è al fatto che cento anni fa, nel 1917, l’Europa era sconvolta dalla Grande Guerra. Proviamo però a chiedere a Munib Younan, che era fianco a fianco a papa Francesco a Lund per la cerimonia ecumenica di apertura del Cinquecentenario, che oltre a essere presidente della Federazione luterana mondiale è anche vescovo della chiesa luterana in Giordania e Terra santa; proviamo a chiedere a lui se davvero festeggeremo la Riforma in un mondo pacificato. Credo tutti possiamo immaginare la risposta.
Dove possiamo trovare un linguaggio nuovo che sappia scuotere le nostre coscienze e ribaltare le nostre priorità? Credo che proprio il linguaggio del Natale ci possa offrire un’alternativa radicale. Non certamente il linguaggio della religiosità a poco prezzo che svende la bontà in un periodo dell’anno in cui tutto – nei negozi e nei centri commerciali – rincara. Ma nel linguaggio biblico del Natale, che si esprime in tre ambiti di grande interesse per il nostro discorso.
Il primo è il linguaggio del confronto con le proprie radici. I racconti della natività dell’evangelista Matteo offrono un confronto tra Gesù e Mosè e la storia di Israele. La strage degli innocenti di cui Gesù rischia di essere vittima, è un richiamo all’eccidio ordinato da Faraone per colpire i bambini maschi ebrei e che portò Mosè a galleggiare su una cesta nelle acque del Nilo. La fuga e il ritorno dall’Egitto sono due riferimenti alla storia di Israele, alla sua discesa per necessità nel grande e ricco paese africano e il suo ritorno, attraverso l’Esodo, nella Terra della promessa. Si tratta di narrazioni che chiariscono la continuità e la discontinuità di Gesù con la storia del suo popolo. E noi europei, sappiamo da dove veniamo e dove andiamo? Ricordo un incontro di alcuni anni fa a Elstal in Germania, un luogo davvero significativo per la sua storia. Elstal nasce nel 1936 come villaggio olimpico dei Giochi di Hitler; dopo il 1945 diventa una caserma sovietica in Germania Est; dagli anni Novanta è sede del campus teologico delle chiese battiste tedesche. È proprio lì che ho sentito la voce anziana di un reduce della Seconda guerra mondiale che, ascoltando i rumori delle società europee, diceva: «Certo la crisi economica è dura e la vita di molte persone è peggiorata, ma non è la guerra. Non c’è nulla che sia così crudele, bestiale e atroce come la guerra. Quindi, diamoci tutti una calmata e curiamoci di preservare la pace». Noi europei non riteniamo più la pace il bene più alto dell’umanità, e non capiamo che qualunque cosa viviamo, anche la peggiore, non è nulla rispetto ad Aleppo, perché è là, nella città devastata, che il male vero prende forma.
Questo ci porta al secondo linguaggio del Natale, che è quello dei profughi, dei perseguitati da questo o quel potere. La vita di Gesù è da subito in pericolo per motivi non molto diversi da quelli che rendono più che precaria la vita degli abitanti di Aleppo. Questo è un linguaggio che sappiano ascoltare solo se si tratta di noi, dei nostri figli, della nostra insicurezza, che paradossalmente addebitiamo proprio a chi cerca rifugio in Europa scappando da persecuzioni e violenze.
Infine, l’ultimo linguaggio del Natale è quello della fede che crede in un Dio che rende possibili le cose impossibili. Il Natale è il racconto di due nascite impossibili, da una donna sterile, Elisabetta, e da una vergine, Maria. Dio fa nascere il futuro in situazioni che apparentemente non hanno più nulla da dare e in quelle che ancora non sono in grado di produrre frutti. Un cammino si apre nel mezzo delle impossibilità umane. Anche questo linguaggio è assente nelle nostre società, dove tutti hanno una protesta da urlare ma nessuno un cammino da proporre.
Allora, mentre la stagione avanza verso il 25 dicembre e ad Aleppo la gente continua a morire, a perdere speranza e dignità, e nelle nostre strade continua a sollevarsi una protesta sterile nella sua rabbia e acerba nella sua capacità propositiva, lasciamoci interrogare da questi tre linguaggi del Natale, come uomini e donne di fede e cittadine e cittadini che credono ancora nel domani.