Bosnia, a piccoli passi verso la normalità
12 maggio 2016
A Banja Luka ha riaperto la moschea Ferhat Pasha, uno dei luoghi di culto distrutti durante la guerra tra le repubbliche che componevano la Jugoslavia. Nessuno scontro e nessuna polemica in una giornata dal grande valore simbolico
Quando si pensa alla Bosnia ed Erzegovina è quasi impossibile non correre con la mente agli anni Novanta, quando la guerra scavò nella storia dei Balcani occidentali e nei suoi abitanti delle ferite profonde, ancora non del tutto rimarginate. Durante l’avanzata delle varie milizie che percorrevano il territorio, molti luoghi di culto vennero distrutti, e tra questi anche la moschea Ferhat Pasha di Banja Luka, meglio nota come Ferhadija. «Fu un atto – racconta Rodolfo Toè, corrispondente da Sarajevo per l’Osservatorio Balcani e Caucaso – paragonabile alla distruzione del ponte vecchio di Mostar e a quella della biblioteca di Sarajevo». Era il 7 maggio 1993, e sabato scorso, a distanza di 23 anni esatti, questo spazio, fisico e simbolico insieme, è tornato a disposizione della popolazione.
L’evento ha radunato migliaia di persone a Banja Luka, nel parco di fronte all’edificio rinnovato, per quello che il premier dimissionario turco, Ahmet Davutoğlu, ha definito «un messaggio di pace per tutti i popoli di Bosnia ed Erzegovina e del resto del mondo». Rodolfo Toè era presente alla riapertura, e in un articolo su balcanicaucaso.org parla di un messaggio di speranza, dal forte valore simbolico.
Perché è stata scelta proprio la data del 7 maggio?
«Questa data è stata scelta per legare simbolicamente la riapertura della moschea alla sua distruzione, avvenuta nella notte del 7 maggio 1993, quando le truppe serbo-bosniache minarono due dei principali luoghi di culto islamici a Banja Luka. Una era proprio Ferhadija, l’altra era Arnaudija, che ancora oggi è chiusa. Da allora, per la comunità islamica di Bosnia ed Erzegovina il 7 maggio è sempre stato considerato il Giorno del ricordo, ma è anche diventato il Giorno delle moschee, nel quale si celebra il patrimonio culturale rappresentato dall'architettura ottomana e da quella religiosa islamica nel Paese, ed è anche il giorno in cui si ricorda la distruzione di molti di questi edifici di culto durante il conflitto degli anni Novanta. Da una parte c’era l'idea di riaprire la moschea nello stesso giorno in cui era stata distrutta, dall’altra il significato simbolico di questa giornata per la comunità islamica e per i bosgnacchi nel corso degli anni era già piuttosto forte».
Un altro 7 maggio, quello del 2001, non era invece stato altrettanto unificante.
«Esatto. Allora c'era stato il tentativo di avviare i lavori di ricostruzione, ma vennero procrastinati di qualche settimana perché le autorità della Republika Srpska non furono in grado di garantire la sicurezza necessaria all'avvenimento, e la cerimonia di apertura dei lavori venne interrotta da violenti scontri in cui ci fu anche un morto. L'idea di questo specifico 7 maggio era già di per sé importante sin dagli anni scorsi, perché crea un legame simbolico tra questa data e il fatto che tantissime moschee siano state distrutte».
I Balcani occidentali vengono sempre raccontati in termini di conflitto, di contrapposizione, di polverizzazione. Lei era era presente a Banja Luka per la riapertura della moschea: che aria si respirava tra i presenti a questo fatto storico e simbolico?
«L'atmosfera era molto distesa, anche perché questa volta le autorità si erano ben premurate di presidiare la città, al punto che già dalla sera prima le strade erano bloccate, la polizia era molto presente in città e il dispiegamento di forze è stato evidente affinché tutto procedesse nel migliore dei modi. Direi anche che il clima era segnato dalla commozione generale. I partecipanti erano soprattutto bosgnacchi e musulmani e c'erano moltissimi anziani provenienti dal resto del Paese. Per motivi che potremmo quasi definire strutturali, alla cerimonia non hanno partecipato principalmente i residenti della città, ma soprattutto persone provenienti dal resto del Paese, anche se la presenza di bagnalucensi è comunque stata significativa. Soprattutto, però, bisogna sottolineare che non c'è stato nessun tipo di provocazione, nessuna tensione, nessun momento spiacevole nel corso della cerimonia».
Nemmeno da parte della comunità serba?
«Va detto che qualche marginale polemica si è vista subito dopo le dichiarazioni ufficiali e il discorso del premier turco dimissionario, Ahmet Davutoğlu, che ha partecipato alla cerimonia nonostante il suo ruolo pubblico sia al termine, ma erano tutto sommato prevedibili. In Bosnia ed Erzegovina questo è un anno elettorale, per cui i partiti serbi devono destreggiarsi tra due tensioni: da un lato un bisogno di normalizzazione e di rispettabilità, nel senso di garantire il minimo sindacale di riconciliazione e di normalizzazione dei rapporti, dall’altro la necessità di garantire anche un minimo sindacale di appartenenza al proprio elettorato.
Milorad Dodik, il presidente della Republika Srpska, era presente alla cerimonia, ma non ha voluto tenere un discorso di fronte a una platea tendenzialmente ostile perché rappresentata da cittadini bosgnacchi e musulmani. Insomma, non mi sarei aspettato che qualcuno come Dodik o altri rappresentanti politici della Republika Srpska prendessero la parola di fronte a qualcuno che molto probabilmente avrebbe reagito freddamente o li avrebbe contestati. Diciamo che le singole polemiche che ci sono state, gli strascichi, erano tutto sommato preventivati, per quanto mi riguarda, non sono niente di sorprendente».
Eventi come questo riportano al centro il tema della riconciliazione, della normalizzazione di un Paese complesso sotto ogni punto di vista. In termini simbolici, questa riapertura avvicina la Bosnia ed Erzegovina all’Unione europea?
«La riapertura di questa moschea e soprattutto il fatto che la manifestazione sia avvenuta in modo molto “normale”, è un buon segnale per il Paese, è un buon biglietto da visita per una società che comunque stenta a lasciarsi alle spalle gli avvenimenti della guerra. Per quanto riguarda la normalizzazione del processo europeo, la strada da fare è ancora moltissima, del resto la domanda di adesione è stata presentata solo a febbraio, e a quell’atto dal forte contenuto simbolico per ora non sono seguiti molti atti concreti. Questo, però, non compromette il suo valore, anche perché l’Unione europea in un momento così difficile ha sicuramente apprezzato la volontà bosniaca di investire sul processo di adesione europea. Più in concreto, resta da verificare se le istituzioni locali saranno in grado di adempiere alle richieste dell'Unione europea in tempo congruo, perché questo è un Paese in cui si fa ancora molta fatica a portare a termine delle procedure amministrative che in altri Paesi sarebbero del tutto normali. Pensiamo per esempio alla pubblicazione dei risultati del censimento, realizzato nel 2013 per la prima volta dalla fine della guerra: ecco, dopo quasi tre anni ancora si aspettano i risultati, perché ci sono diatribe tra le varie agenzie statistiche del Paese. Insomma, diciamo che anche degli atti che sarebbero totalmente normali e totalmente non sensibili in qualsiasi Paese normale, qui purtroppo richiedono ancora molto sforzo e molto tempo».