
Chernobyl 30 anni dopo
02 maggio 2016
«Cosa succede nel mondo a trent’anni da Chernobyl e dopo la recente e bella iniziativa della Cop21? Niente. Si parla, si vota, si discute e ci si allarma». La nostra intervista a Fulco Pratesi, presidente onorario del Wwf Italia, ambientalista e politico italiano
Trent’anni fa, esattamente il 26 aprile del 1986, esplose il reattore numero 4 di Chernobyl. La notizia in Italia giunse molti giorni dopo. Ci può dire quali furono i suoi primi pensieri?
«Fu una cosa tremenda, fino a quel momento non avevamo mai assistito ad un incidente di tale portata. Fu sconcertante scoprire che le popolazioni dell’area colpita furono avvisate con grave ritardo; forse poco si sarebbe potuto fare, ma credo sarebbe stato doveroso allertare tutti in tempo utile per permettere velocemente l’allontanamento. Nessuno, in quelle prime ore della tragedia, e poi noi nei giorni successivi quando la notizia raggiunse anche l’Italia, sapeva davvero cosa fare, come poter affrontare la situazione e quali indicazioni dare. Ad esempio i divieti di ingerire frutta e verdura furono presi alla lettera da molti; altri invece non vollero dare importanza a quelle prescrizioni. La nube tossica stava potando verso l’Europa un problema serio e riscontrabile ancora oggi nei nostri terreni».
Erano indicazioni davvero utili quelle di non mangiare frutta, verdura e latticini?
«Il non bere latte o consumare esclusivamente cibi conservati nel congelatore o altre misure preventive in effetti non avrebbero risolto il grave problema. Specialmente nel Nord Italia cesio, stronzio e plutonio si stavano depositando nei nostri terreni, nei nostri ortaggi e funghi; chi aveva deciso di seguire tutte le raccomandazioni degli istituti di ricerca poteva in realtà fare ben poco, si trattava infatti di un fenomeno incontrollabile e ingestibile».
Gli ambientalisti già dal 1973 si muovevano per far comprendere i pericoli del nucleare. Dopo Chernobyl vi fu una maggiore consapevolezza?
«Abbiamo sempre considerato questa forma di energia pericolosa e dannosa. Il referendum sul nucleare del 1987 (già precedentemente programmato, ndr), dopo la tragedia di Chernobyl non fu più in salita, ma in discesa. Fu facile far comprendere a tutti quanto il problema del nucleare fosse in realtà molto pericoloso e vicino a noi, molto più di quanto si potesse pensare fino a quel momento. Anche la recente tragedia in Giappone a Fukushima avvenne casualmente a pochi giorni dalla seconda occasione referendaria dedicata al nucleare del 2011».
Eppure, malgrado i referendum e la decisione degli italiani di farne a meno, il nucleare rimane un problema.
«Fermare questa dannosa forma di energia è sempre stato il nostro imperativo come ambientalisti e come Wwf. Molti ancora non si rendono conto che in Piemonte i cinghiali contengono un alto tasso di cesio nel loro corpo e che molte persone stanno morendo per Chernobyl e Fukushima. L’Italia ha risposto bene ai nostri appelli e le tre centrali presenti nel nostro paese sono state fermate e smantellate; altri paesi a noi vicini, come ad esempio la Francia, hanno deciso di utilizzare il nucleare rimandando i problemi ad esso connessi. Già oggi quelle centrali non godono di buona salute e i materiali di protezione sono ormai obsoleti. Quelle sostanze radioattive e le scorie prodotte richiedono diecimila anni per veder dimezzata la loro intensità e pericolosità».
Si dice che cinque milioni di persone vivano ancora nelle zone contaminate da radiazioni.
«Una vera condanna. Persone costrette a vivere in aree contaminate e a cibarsi di alimenti altamente cancerogeni che portano lentamente alla morte. Sappiamo che le centrali esistenti, molte delle quali ormai fatiscenti, sono pericolose e sappiamo anche che altre sono in fase di costruzione, come quella finlandese, che fortunatamente procede a rilento per via delle misure precauzionali obbligatorie che ne appesantiscono i lavori e ne elevano i costi. Ricordiamoci che ancora non sono stati risolti i problemi di contenimento per le dispersioni sia a Chernobyl – il sarcofago di protezione non è infatti ancora stato completato dopo trent’anni – e che a Fukushima continuano a fuoriuscire radiazioni pericolosissime. Quelle zone sono difficilmente raggiungibili e chi vi opera per salvare la nostra vita lo fa sapendo con certezza di perdere la propria».
In Cina ad esempio vi sono trentuno centrali nucleari operative e altrettante pare siano in costruzione. Per stare più vicini a noi, il Piemonte ospita le scorie radioattive delle centrali italiane.
«Queste scorie fortemente radioattive che cerchiamo di immagazzinare o confinare in situazioni apparentemente sicure sono in realtà pericoli attivi, che crediamo di aver congelato. Il Piemonte è ricco di corsi d’acqua facilmente contaminabili, il pericolo è sempre in agguato».
Perché il tema del nucleare è poco sentito in Italia?
«Perché da noi le centrali sono dismesse. Tuttavia, a due passi da noi, in Francia e in Spagna, ci sono numerose centrali attive e non godono, come dicevo, di buona salute. Sono ipoteche firmate dai nostri vicini di casa che stiamo lasciando ai nostri figli e nipoti. Una scellerata miopia, una scelta che sta danneggiando il nostro pianeta e che condannerà le generazioni future. Il consumismo, la mancanza di cura verso la natura, l’egoismo, stanno distruggendo ciò che di più prezioso è stato regalato all’essere umano, il nostro ecosistema».
Chiese protestanti, movimenti ecumenici internazionali e recentemente papa Francesco hanno posto l’attenzione sulla cura e la salvaguardia del creato; grandi assenti sembrano essere la politica e le istituzioni.
«Cosa succede nel mondo a trent’anni da Chernobyl e dopo la recente e bella iniziativa della Cop21? Niente. Si parla, si vota, si discute e ci si allarma. Poi si costruiscono nuove centrali nucleari, nuove auto e i clienti scelgono i Suv, si costruiscono strade e si smantellano le rotaie. Ovunque nel mondo regna il menefreghismo. Ancora oggi, malgrado gli studi e gli allarmi, si costruiscono impianti a carbone. Come possiamo pensare di imporre al Burkina Faso o al Bangladesh di limitare il loro sogno di sviluppo, le loro ambizioni e le loro pretese? L’esempio che noi diamo è quello di un modello sbagliato, l’opposto di quello che pretendiamo da loro».