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Sentirsi vivi, al di là della medicalizzazione

Una nuova idea di cura nel libro del chirurgo Atul Gawande

È sorprendente che un libro che parli dell’ultimo periodo di vita e della morte* sia stato per oltre un anno tra i più venduti in Usa. Solo leggendolo si potrà invece apprezzare il taglio dato da un medico, addirittura chirurgo, che ammette come la medicina tecnologica moderna abbia in realtà disumanizzato e resi asettici e senza sentimento i nostri ultimi giorni.

La comunità medica è più concentrata sulla malattia che sulla vita del paziente. Nel solco, invece, di una medicina che sappia anche fermarsi, si ritiene compito essenziale del medico aiutare gli altri non solo per quello che la medicina è in grado di fare, ma anche per quello che non è in grado di fare. Non basta assicurare salute e sopravvivenza, ma bisogna puntare a qualcosa di più vasto: permettere il benessere, che ha a che fare con le ragioni per cui una persona desidera essere viva. E queste ragioni sono importanti non solo alla fine dell’esistenza ma lungo tutta la vita. Alla fine dei conti il nostro obiettivo primario non è una buona morte, ma una buona vita fino alla fine, con buona pace di chi vorrebbe accelerare l’esito ultimo.

E allora ecco una lunga carrellata di come intendere gli hospice, le residenze assistite, le case di riposo, di come l’individuo stia bene a casa propria (non dei propri figli) e di come le cure territoriali dovrebbero, anche da noi, avere un’importanza reale e non solo negli intendimenti teorici dei nostri legislatori, forse più portati al risparmio che a una visione davvero utile per i cittadini.

Il libro racconta di esperienze statunitensi. Quasi mai gli Usa possono essere presi ad esempio, ma nell’innovazione sì, e fa piacere, e un po’ invidia, leggere della buona riuscita di quelli che furono nostri progetti al Rifugio Re Carlo Alberto (Luserna S. Giovanni) nei primi anni ‘90, come introdurre la cura di piccoli animali o fare andare i bambini in visita agli anziani, e che da noi si scontrarono con cavilli Asl o con timori ingiustificati dei genitori, oltre alla cronica carenza di fondi.

Ma tutto il libro è pervaso di una nostra intima convinzione, seppur non maggioritaria in questo mondo tecnologico che si basa sulla cura fino al parossismo: che la salute, il «ben-essere» delle persone, non si basa su quanto un individuo abbia di colesterolo o di glicemia ma su come sta nel mondo in cui vive. E l’insistenza sulla bontà dello «stare a casa propria» è una sorta di mantra che ci convince perché ci abbiamo sempre creduto, in un mondo con una visione ospedalocentrica e tecnologica che dà anni alla vita ma non vita agli anni.

I progressi scientifici hanno trasformato l’invecchiare e il morire in esperienze mediche: è un modo di pensare recente, le prove indicano che sta fallendo, forse è finalmente giunto il momento di ripensare a che cosa sia davvero importante, spiritualità compresa. Riappropriarsi del proprio io pensante invece di tanti Struldbrugg come quelli descritti da Swift nei Viaggi di Gulliver, che scompaiono dal mondo, sepolti in case di riposo per anni, prima di morire. E vincere il paradosso che mai come oggi ci lamentiamo della salute quando mai la gente ha goduto di una vita così lunga, sana e produttiva.

Saper invecchiare è il segreto per vivere meglio, senza il giovanilismo esasperato, a metà tra il comico e il patetico. Se faremo insieme lo sforzo di spostare di nuovo la nostra attenzione e il nostro interesse dal corpo, nuova religione con i precetti della corsa e della dieta, allo spirito, sarà di giovamento per ognuno di noi. A un certo punto diventa più importante l’essere e continuare a essere gli autori della propria storia invece che il fare, ottenere e accumulare; e soprattutto con gli anni cambiano le priorità. Vivere il presente risulta l’imperativo categorico che ci permetterà un vivere sereno, al riparo del salutismo esasperato: anche quando gli orizzonti necessariamente si restringono. Vivere oggi il miglior giorno possibile piuttosto che sacrificare tempo attuale in cambio di tempo a venire; e naturalmente, se esiste un medico di cui si ha fiducia con il quale confrontarsi, tanto meglio.

«Il successo del libro mi ha sorpreso – disse Gawande in un’intervista al New York Times dopo un anno di permanenza in classifica –, vista l’abituale riluttanza della società a parlare della fine della vita. Non è un libro facile. Dal capitolo due inizi a leggere che i denti ti cadranno, il cervello si rimpicciolirà, la vista si offuscherà. E in ogni caso – attenzione: spoiler – alla fine muori».

Il neurologo e scrittore Oliver Sacks, morto lo scorso 30 agosto, scrisse a proposito del libro: «Siamo arrivati a medicalizzare l’invecchiamento, la fragilità e la morte, trattandoli come se fossero solo un problema clinico in più da sconfiggere. Invece non si ha bisogno solo della medicina negli anni del declino, ma della vita: una vita con un significato, una vita ricca e piena, per quanto sia possibile in quelle circostanze». Un libro prezioso e in Italia, dove il tessuto familiare rispetto ai Paesi nordici tiene ancora, potrebbe dare i suoi frutti.

 

* Atul Gawande, Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo, Torino, Einaudi, 2016, pp. 272, euro 19,50.

Foto: By Ted - Atul Gawande, MD and Jack Cochran, MD, CEO of The Permanente FederationUploaded by Edward, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=15552203

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