Il medico di frontiera e il diritto alla salute
15 aprile 2016
La testimonianza dal Libano di Luciano Griso, membro dell’équipe dei “corridoi umanitari”
«La cosa più difficile è risolvere i problemi di salute di persone senza reddito in un paese in cui la sanità è gestita in maniera privatistica». Sono le parole di Luciano Griso, medico internista specializzato in ematologia e psicoterapia, membro dell’equipe dei “Corridoi Umanitari”, impegnato in Libano da gennaio, per il progetto ecumenico della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) e della Comunità di Sant’Egidio. «Vedere persone soffrire perché non hanno i soldi per comprare le medicine o per ricoverarsi in ospedale è la cosa più ardua da affrontare», aggiunge.
Visita quotidianamente donne, uomini e bambini in condizioni di estrema precarietà sanitaria. E’ lui ad attestare il grado di vulnerabilità dei profughi – prevalentemente siriani – rifugiatisi in Libano in questi anni, i quali, se otterranno un “visto per motivi umanitari”, potranno giungere in Italia in modo legale e sicuro. Con pazienza e professionalità cerca di esaminare il numero maggiore di casi, segnalati dalla rete locale di associazioni e organizzazioni non governative, attive nel paese dei cedri.
Una gravosa responsabilità, la sua, che segna irreversibilmente il destino delle persone. Molte di loro, infatti, sono state inserite all’interno della prima lista giunta in Italia. Come Falak, la bimba proveniente da Homs affetta da retino blastoma, una rara forma di tumore alla retina, curabile, ma non a Beirut, dove la sanità è privata e dove in assenza di un’assicurazione sanitaria, l’accesso alle cure è impraticabile. O come Diya, il bimbo con una gamba amputata, a causa di un’esplosione di un mortaio davanti al portone della sua casa a Homs. Con i corridoi umanitari questi due bambini sono riusciti ad accedere all’assistenza sanitaria in Italia: Falak all’ospedale Bambin Gesù di Roma e Diya presso l'associazione “Bimbingamba”, l'officina ortopedica RTM di Budrio vicino Bologna, che ha donato al piccolo siriano una protesi.
Numerosi sono i casi che potrebbero essere curati in Libano con un normale ricovero ospedaliero, ma i costi sono spropositati. E’ il caso, per esempio, di un uomo curdo siriano bisognoso di un trattamento di chemioterapia; il preventivo calcolato dall’American Univerisity Hospital è quanto quello per l’acquisto di una casa.
Purtroppo non tutti i casi sono a buon fine. Uno degli ultimi esaminati, è quello di una giovane donna di Aleppo, madre di due figli, distesa su un tappeto, impossibilitata a muoversi per violenti dolori alla schiena, causati da una metastasi tumorale alla colonna vertebrale. «Non può recarsi in un posto specializzato, non può fare cure adeguate perché costano. E’ abbandonata al suo destino», racconta Griso.
Questa situazione, tuttavia, non affligge solo i siriani – quasi 1.5 milioni in Libano, secondo le ultime stime dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, aggiornate a giugno 2015 – ma anche gli stessi libanesi obbligati a pagare cifre esorbitanti per ottenere una copertura medica sanitaria.
«E’ difficile accettare questa situazione provenendo da un paese in cui è riconosciuto il diritto alla salute e alle cure a tutti i cittadini a prescindere dal reddito», conclude Griso.
Fonte: Mediterranean Hope