Capire il Belgio, capire l’Europa
29 marzo 2016
Nei giorni in cui i commentatori lo descrivono come «Stato fallito», cerchiamo di fare luce sulle complessità del Belgio, culla di un problema europeo
Resosi indipendente nel 1830 dai Paesi Bassi, il Belgio è una monarchia federale con uno degli assetti politico-amministrativi tra i più complessi del mondo. Nel suo primo articolo la costituzione Belga sancisce l’esistenza di tre comunità (fiamminga, francese, germanofona) e di tre regioni (Fiandre, Vallonia, Bruxelles capitale). A livello federale, il potere esecutivo viene esercitato dal Re e dal governo centrale nei settori che riguardano il bene comune, come ad esempio la politica estera; a livello comunitario (retto dal principio d’appartenenza linguistica) vengono invece gestite istruzione, cultura, sanità e affari sociali; tuttavia è a livello regionale (retto dal principio di territorialità) che lo Stato ha concesso le maggiori autonomie, conferendo alle regioni caratteristiche proprie di un esecutivo, come il potere di siglare trattati internazionali o di amministrare rispettive polizie interne.
Data la sua struttura non stupisce che in Belgio più che altrove eventuali minacce alla sicurezza interna comportino difficoltà di coordinamento. I maggiori problemi si riscontrano proprio Bruxelles, la «Gerusalemme europea». Tre volte capitale – dello stato federale belga, della regione delle Fiandre, della comunità francofona – questa città resa multietnica dalla storia coloniale del regno e da decenni d’immigrazione postbellica (soprattutto italiana) venne scelta per ragioni geopolitiche quale sede delle istituzioni europee. Le Comunità economiche (Ceca – Cee – Ce) e l’Unione europea che da queste nacque nel 1992 dovevano crescere e svilupparsi in un paese neutro, che non fosse né Germania né Francia. Accadde così che il piccolo Belgio divenne il cuore dell’integrazione politica del continente. Un luogo altamente simbolico, che i terroristi dello Stato islamico hanno con coscienza preso di mira.
Ora, la debolezza dello Stato belga è proverbiale sin dalle elezioni legislative del 2010, quando ci vollero 541 giorni per formare un nuovo governo. Più che l’integrazione delle comunità immigrate, a minare l’unità del paese sono i problemi economici del sud vallone – in declino come le sue miniere di carbone – e le rivendicazioni separatiste di una destra fiamminga in costante ascesa politica. Stando agli ultimi dati disponibili, su 11 milioni di abitanti circa il 10% sarebbe di nazionalità straniera: si noti che le prime tre comunità sono comunitarie – italiani (1,5%), francesi (1,3%), olandesi (1,3%) – e che i marocchini figurano solamente quarti, con lo 0,8%. Proporzioni che paiono confermate dal dato religioso: a fronte di una maggioranza cattolica (60%) e di una crescente percentuale di atei (31%), i musulmani costituirebbero solamente il 4% della popolazione. Ma se i numeri non sono diversi da quelli di altri paesi del nord Europa, perché il «fallimento del modello multiculturale belga» è sulla bocca di tutti già da prima degli attentati di Parigi e Bruxelles? Una risposta la forniscono i dati divulgati da Radio Free Europe: con 40 foreign fighters il Belgio è da tempo il primo «fornitore» europeo dello Stato islamico, subito dopo Giordania, Tunisia, Arabia Saudita, Bosnia, Kosovo, Turkmenistan e Albania.
Il problema però non è soltanto l’integralismo religioso – in Belgio come altrove i finanziamenti dall’alleato saudita hanno probabilmente favorito infiltrazioni salafite – ma afferisce alla realtà sociale ed economica delle periferie europee. Il quartiere di Molenbeek non spunta dal nulla: prima di ospitare Salah Abdeslam aveva già offerto protezione a jihadisti del calibro di Abdessatar Dahmane (uno degli assassini di Ahmad Shah Massoud, principale leader anti-talebano in Afganistan), Mimoun Belhadj e Hassan el-Haski (le menti degli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004). Parigi e i nostri ashtags #Jesuischarlie sarebbero arrivati più di dieci anni dopo.
Per spiegare questa escalation (che non è solamente un problema belga!) il politologo Paolo Pombeni ha giustamente parlato di un’«escatologia» dello Stato islamico, che non prefiggendosi un obiettivo raggiungibile non si configura come vera proposta politica, ma piuttosto come ideologia «globale e catastrofista» degli emarginati – da questo punto di vista, nessun paragone può essere fatto con il terrorismo italiano degli anni Settanta. In questi mesi, i francesi hanno coniato una parola per indicare quei quartieri periferici che tramite internet sono a rischio di contaminazione ideologica: «Zus», zone urbane sensibili. Come ben spiegato da Marco Di Liddo a Linkiesta, si tratta di ghetti non formalizzati, dove la popolazione franco-magrebina di seconda generazione «ha iniziato a cercare il proprio riscatto attraverso la rivalutazione delle radici culturali e religiose, in uno Stato il cui modello di cittadinanza si basa invece sul laicismo e sull’assimilazione delle diversità».
Già, perché alla pari della Francia anche il Belgio è uno stato laico. Nonostante il ruolo identitario storicamente giocato dal cattolicesimo in antitesi all’Olanda protestante, in materia etica e religiosa lo stato belga si è sempre mantenuto neutrale: rispetto per la libertà di culto – garantito, sia ben chiaro, anche nella sua dimensione pubblica – ma divieto di esposizione di simboli religiosi nei luoghi dello Stato. Moschee e chiese sì, velo e crocifisso no; almeno non per i luoghi e i dipendenti pubblici.
Cosa dire dunque, cosa pensare del Belgio, dei suoi problemi, delle sue vittime? Solo una cosa è certa: i problemi di Bruxelles sono problemi nostri. Perché di periferie interconnesse è costellata l’Europa.