Cuba e Stati Uniti, ponti di speranza
25 marzo 2016
La visita di Obama chiude forse un’era. Le chiese da anni hanno coltivato il dialogo ponendo le condizioni per le strette di mano di oggi
«Legami più stretti tra gli Stati Uniti d'America e Cuba possono contribuire a rafforzare le speranze e le condizioni materiali degli abitanti della nazione caraibica», afferma il segretario generale del Consiglio Mondiale delle Chiese, pastore Olav Fykse Tveit nel commentare lo storico viaggio che ha visto il presidente Barack Obama sbarcare sull’isola, 88 anni dopo Calvin Coolidge che era stato l’ultimo inquilino della Casa Bianca a visitare il paese dopo tre giorni di navigazione su una nave da guerra.
Quasi un secolo dopo il primo presidente di colore della storia a stelle e strisce ha impiegato tre ore di aereo per sbarcare a L’Havana. Tutto è cambiato da allora, non solo i tempi di percorrenza. A ricevere il presidente repubblicano nel 1928 era Gerardo Machado e Cuba si apprestava a diventare luogo di piacere, sala giochi e buen retiro di tanti boss americani, delinquenti conclamati o meno, in una convivenza che porterà alla dissoluta presidenza di Fulgencio Batista contro cui si batteranno i barbudos della Sierra Maestra. Vinceranno quei giovanotti, e daranno vita a tutta un’altra storia: Cuba cuneo comunista a due passi dalla nuova guida economica e militare globale, portavoce del liberismo. Prima della rivoluzione del 1959 gli americani sull’isola controllavano miniere, petrolio, centrali elettriche, telefonia e la produzione dello zucchero di canna, fornendo inoltre il 65% delle importazioni dell’isola. Una colonia non ufficiale, in pratica.
Stati Uniti e Cuba con sullo sfondo l’incubo dell’Unione Sovietica. Le tensioni esplodono subito: alla fine del suo secondo mandato Eisenhower prepara l’invasione dell’isola. 1500 uomini pronti a rovesciare Castro, Guevara e gli altri. Siamo nel 1961: a gennaio diventa presidente John Kennedy, eredita il piano di invasione già in fase organizzativa avanzata e non ha ancora il carisma o l’autorità per bloccarlo, pur cogliendo i rischi di una disfatta. Sarà una delle peggiori operazioni militari americane del dopoguerra, un disastro totale. L’escalation è però avviata e in apertura di 1962 Kennedy estende il blocco economico che grava sull’isola, già avviato dal suo predecessore Eisenhower. E’ la fine delle relazioni fra le due nazioni. 54 anni trascorsi e ora Barack Obama vorrebbe chiudere la sua era con il voto del Congresso per eliminare del tutto l’embargo, già allentato a partire dal 2009. Sarà impresa ardua data la maggioranza repubblicana ostile a soluzioni distensive con i vicini di casa caraibici, se non altro per tenersi buoni i serbatoi di voti degli esuli, sempre agguerriti. Ma anche il loro potere elettorale sembra smussato, le nuove generazioni già nate negli Stati Uniti non hanno voglia di sentir parlare di odi che appaiono retaggi del secolo scorso. E guardano invece con rinnovato interesse a quella che è la terra dei padri.
«Salutiamo con gioia i concreti passi messi in atto dai due governi per superare le passate divisioni, e riconosciamo il ruolo importante dei partner internazionali, incluse le chiese che hanno giocato un ruolo importante nel cammino che ha portato a questa storica visita» continua Tveit.
«Condividiamo e sosteniamo le aspettative del popolo e delle chiese cubane affinché questa visita sia un aiuto concreto per vedere migliorare la situazione economica e sociale dell’isola e sia testimonianza concreta di pace raggiunta attraverso il dialogo e la riconciliazione».
Chiese che sono state fonte di dialogo in anni in cui ufficialmente il muro fra le due nazioni era impenetrabile. Come ha ricordato in una lettera Joel Ortega Dopico, pastore presbiteriano e presidente del Consiglio delle chiese di Cuba dal maggio del 2012, «per molti anni abbiamo mantenuto un ponte formato da relazioni amichevoli fra cubani e nordamericani, alla ricerca di una possibile normalizzazione dei rapporti, pregando e agendo insieme per far sì che si potesse giungere a questa nuova era che oggi iniziamo a vedere vicino a noi». Salutando l’arrivo del presidente statunitense, Ortega ha sottolineato come «la visita avrà esiti positivi non soltanto per le due nazioni, ma per l’intera regione e per il mondo intero, ancor più alla luce delle tensioni globali che respiriamo oggi a ogni latitudine», ed ha rimarcato quanto la presenza protestante ed evangelica sull’isola sia figlia del lavoro dei missionari e delle chiese nord americane, prima che le relazioni ufficiali venissero bloccate.