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Il blues del riscatto delle afroamericane

Sono le donne nere ad aver mantenuto la coesione sociale nelle chiese, nonostante il contesto patriarcale e di esclusione

 «La teologia womanista sta a quella femminista come il colore viola sta a quello lavanda!». Con queste parole ti accoglie la massiccia ragazza afroamericana che guida la liturgia del culto in occasione dell’8 marzo che si tiene al Chicago Theological Seminary, legato alla United Chruch of Christ. La cappella del seminario non a caso è tutta decorata di viola e presenta chiari riferimenti alla cultura afroamericana.

La breve liturgia si svolge in modo piano, ma quando si giunge al momento della predicazione tutto cambia. A predicare è una giovane e talentuosa pastora afroamericana della Trinity UCC di Chicago (la chiesa di Barak Obama per capirci) che si approccia al microfono con la sicurezza di chi è abituato a parlare dinanzi ad un vasto pubblico. La predicazione è incentrata sulla storia della figlia di Jefte e ha un titolo che la dice lunga sul contenuto: «Dite il suo nome: resistendo alla violenza contro le donne nere». Quel che davvero colpisce è, però, la modalità con cui è espressa: ha i toni caldi e convincenti di un comizio, il volume cresce a dismisura nel sottolineare i concetti importanti e il pubblico risponde ripetendo slogan e gridando degli ‘Amen’ sempre più convinti. E’ una sorta di esperienza catartica…

Finito il sermone mi aspetta una sorpresa. Il blues che finora non ho ascoltato per strada o nei locali, lo ascolterò qui: Purple blues. Ma la vera sorpresa è che a comporlo e a cantarlo dal vivo sarà la professoressa Terrell, di cui ho seguito una lezione sulla teologia proto-womanista. Così la mia mente divaga…

Esperienza interessante la lezione per capire quanto ancora la questione razziale, il senso di esclusione e marginalizzazione siano forti in queste terre. Prende avvio con l’analisi della vita di Isabelle Baumfree, nota come Sojourner Truth, una schiava nera che divenne famosa attivista per i diritti civili di afroamericani e donne e fu anche predicatrice metodista. Ben presto le esperienze personali di studentesse e insegnante (l’unico uomo di colore presente tace ed è in evidente disagio) prendono il sopravvento ed emerge chiara la necessità di smarcarsi dal retaggio culturale bianco, anche quello delle teologhe femministe. Il concetto di maternità diventa centrale nel discorso per capire il ruolo paradossale che le donne nere hanno vissuto: messe ai margini, per lungo tempo non abilitate a parlare nelle chiese e nella società sono però loro che hanno mantenuto la coesione sociale delle comunità nere e che hanno lavorato affinché le chiese fossero un luogo sicuro e di crescita per i loro figli; tutto questo in un contesto fortemente patriarcale, dove gli uomini sono quasi sempre assenti o poco attenti. Invece oggi, per le giovani la questione si concentra maggiormente sulle discriminazioni di genere in campo lavorativo con difficoltà di accesso ai posti di lavoro più importanti e remunerativi, spesso con un salario inferiore a quello maschile a parità di impiego. Come dar loro torto e come non cercare di condividere con loro che questa è una questione aperta anche in Italia: vorrei dire che anche da noi il concetto di maternità è forte, anche qui le donne sono troppo spesso vittime di violenza e soprusi da parte dei loro compagni e il contesto sociale difficilmente aiuta a scardinare questa situazione. Ma non è possibile, non c’è molto spazio per argomentare: qui il retaggio dello schiavismo e la questione razziale sono troppo forti e vivi per riuscire a condividere il fatto che certe questioni attraversano anche le donne bianche in molti contesti.

Torno con la mente al culto: il blues è finito e la liturgia si avvia alla conclusione. Mi rimane la domanda se un giorno riusciremo come donne a sentirci veramente tutte sorelle e quanto questo fervore womanista avrà peso nelle prossime elezioni presidenziali.

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