Il sessismo sui banchi di scuola
09 marzo 2016
Un’originale indagine Unesco ci interroga sull’immagine della donna veicolata dai libri scolastici
Anche quest’anno l’Unesco (una sigla nota ma che in pochi saprebbero sciogliere: Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura) ha seguito da vicino la Giornata Internazionale della Donna, una data che le Nazioni Unite e le agenzie ad esse collegate riconoscono e promuovono dal 1975. Lo slogan di quest’anno era “Planet 50-50 by 2030”: un obiettivo di parità che passa dall’educazione, o meglio, lo abbiamo ricordato, dalla lotta alla discriminazione all’accesso scolastico.
Ma quand’anche le piccole donne di domani riescano ad accedere ai banchi di scuola, un’altra sottile forma di discriminazione inciderà sulla loro crescita: quella, implicita e subliminale, dei libri scolastici. Secondo Manos Antoninis, uno dei curatori del Global Education Monitoring Report dell’Unesco, «assicurarsi che tutti i ragazzi e le ragazze abbiano la possibilità di andare a scuola è solo una parte della battaglia culturale che dobbiamo condurre. Perché quello che impareranno è altrettanto o forse ancora più importante». Stando ai dati raccolti sin qui, i libri di scuola di diversi paesi del mondo veicolano un’immagine fissa della donna, limitandone ruolo e sfera d’azione all’interno del contesto domestico. «Un divario di genere che plasma le motivazioni, l’autostima e la partecipazione delle alunne nell’ambiente scolastico», prosegue Antoninis.
Per monitorare il divario di genere veicolato dai sussidiari in commercio nel mondo, l’Unesco ha lanciato in questi giorni un’originale metodologia d’indagine, invitando i genitori del pianeta a segnalare su Twitter sia le immagini virtuose che quelle discriminatorie. Per dare una mano alla ricerca, in questo caso, basta caricare la foto che si intende portare all’attenzione e “marcarla” con l’hashtag #BetweentheLines. Per il momento, gli esempi provenienti dall’Asia e dall’Africa confermano come nei libri di testo adottati nei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” soltanto gli uomini vestano i panni dinamici degli imprenditori, degli ingegneri, degli scienziati, dei politici. Le donne o non compaiono – un’assenza riscontrata, dato che fa riflettere, soprattutto nei testi scientifici – o sono per lo più intente all’esclusiva gestione del focolare. Sempre secondo l’Unesco, una volta raccolti dati sufficientemente attendibili, questo trend potrebbe essere invertito attraverso campagne specifiche indirizzate non solo alle autorità statali dei paesi individuati come carenti, ma anche alle istituzioni scolastiche e alle case editrici.
In relazione alle società di quello che una volta era chiamato “terzo mondo”, si obietterà che questo secondo livello di discriminazione non solo non sorprende, ma non è nemmeno il più importante. Dopotutto, la connessione tra povertà e disuguaglianza di genere è un fatto noto, tutti i dati Unesco sono lì a confermarlo – sulla base dei criteri presi in esame (l'accesso all’istruzione, ma anche alla salute, a un conto bancario e alla rappresentanza politica) i dieci paesi in cui è più “duro” nascere femmina sono il Niger, la Somalia, il Mali, la Repubblica Centrafricana, lo Yemen, la Repubblica Democratica del Congo, l’Afghanistan, la Costa d'Avorio, il Ciad e l’Unione delle Comore.
Ciò detto, prendendo spunto da quest’innovativo metodo di ricerca internazionale, sarebbe cosa buona e giusta sentirsi chiamati in causa e procedere senza complessi di superiorità ad un’analisi altrettanto meticolosa dell’immagine della donna nei “nostri” sussidiari: occidentali, europei, italiani. Potremmo così scoprire quanto “terzo mondo” stia al di qua della soglia delle nostre case. O quanta falsa emancipazione, visto che, purtroppo, in quanto a opprimenti modelli di genere anche le società ricche hanno tanto da “insegnare” alle future generazioni.