L'«Abaya collection» di D&G, il velo e le mode che cambiano la società
29 gennaio 2016
Ne parliamo con l'antropologa iraniana Sara Hejazi
Gli stilisti Dolce e Gabbana hanno lanciato recentemente una nuova collezione, la Abaya collection, che, rispetto a quanto avremmo potuto aspettarci, propone bellissime modelle molto vestite. Anzi, estremamente vestite. L'Abaya infatti è un tipo di velo, una tunica scura e lunga, usato soprattutto nella zona del Maghreb.
Nei paesi a maggioranza islamica ci sono molti tipi di velo. Dopo la guerra in Afghanistan è diventato famoso il burqa, velo totalmente coprente che lascia alla donna la possibilità di vedere il mondo esclusivamente attraverso una rete posta ad altezza degli occhi; c'è il chador iraniano, che lascia scoperto l'ovale del volto; il niqab che lascia scoperti soltanto gli occhi, usato prevalentemente in Arabia Saudita. E poi altri.
Dolce e Gabbana si sono ispirati a una tradizione locale del Maghreb, per proporre una collezione globale, laddove ormai il globale ha assimilato differenti tradizioni e abbigliamenti che la moda integra perfettamente ma che in Europa suscita ancora, nella migliore delle ipotesi, stupore.
Ce ne parla Sara Hejazi, antropologa iraniana.
Collezioni dedicate alla moda del mondo musulmano ce n'erano già state, ma questa proposta dal marchio D&G ha suscitato particolare scalpore. Secondo lei perché?
«Ha fatto particolare notizia perché l'Islam è al centro del dibattito pubblico, sia per le questioni legate ai migranti sia per il collegamento immediato al terrorismo. Non dico che sia giustificato ma nella percezione comune questo legame c'è.
Per l'Occidente è soprattutto la donna col velo a essere un'ossessione: fin dal '700 si è pensato che tutto quello che rappresenta il mondo arabo potesse essere sintetizzato dalle donne velate: l'altro per eccellenza, la diversità riscontrabile tangibilmente».
È cambiato il modo di vivere e indossare il velo?
«Sì, molto. Il velo ha una storia complessa e in evoluzione, ma forse il cambiamento più grande c'è stato negli ultimi 30 anni, cioè da quando è diventato un simbolo politico per dire “non sto né a occidente né a est con la Russia, ma sto con l'Islam”, fino a diventare, soprattutto per le seconde generazioni, un elemento di distinzione e di rivendicazione delle proprie radici al di fuori dell'Europa. Radici che non sono per forza tradizione ma anche qualcosa di innovativo. Questo lo si può riscontrare dal fatto che ci sono tantissimi tutorial su Youtube su come indossare il velo in modo chic, come decorarlo per esempio con pinze apposite create da stilisti musulmani. Ci sono spille, gioielli veri e propri che fanno da accessori per il velo.
Tempo fa ci si chiedeva se l'Islam fosse compatibile con lo stile di vita europeo, quasi come se fosse una realtà totalmente aliena, ma effettivamente in qualche modo questa religione è stata assorbita dall'Occidente, viene riproposta come qualcosa in cui ci si può identificare non solo spiritualmente ma in modo pratico: si può essere belli, si può essere alla moda compatibilmente con i precetti islamici».
Questo, all'interno della società, ha dato un nuovo senso al ruolo della donna?
«Il ruolo della donna sta cambiando nella società in generale: ad esempio in Arabia Saudita di recente le donne sono andate a votare per la prima volta nella storia. Le campagne per rendere più vicino qualcosa che si percepisce come estremamente distante rappresentano un cambiamento più forte per l'occidente che per qualunque altra cultura. L'islamico, l'islamica e in particolare la donna velata usati come manifesto pubblicitario da due stilisti come Dolce e Gabbana scioccano più l'Occidentale che il mondo islamico».
Una volta la provocazione stava nell'assenza di vestiti oggi è il velo la provocazione?
«Ora il velo fa notizia perché l'Islam è al centro del dibattito pubblico, ci si chiede come scindere i vari ambiti di questa cultura, la religione, la politica e la tradizione; cominciando a normalizzarne degli aspetti si arriverà, tra qualche anno, a non essere più “una notizia” ma semplicemente parte anche della tradizione occidentale, così come già lo è stato anche circa 2500 anni fa.
Nel mondo arabo invece, sono almeno venticinque anni che esiste un business di prodotti halal, permessi dalla legge islamica perché privi di grassi provenienti dal maiale e di alcool, prodotti da grandi marchi inglesi e francesi che riconoscono il mondo arabo come una fetta importante del mercato. Anche l'Ipercoop sta producendo linee halal per la parte musulmana degli italiani. Ci troviamo nel mondo globale e i prodotti e le persone circolano.
Oltretutto sono già tanti anni che gli arabi propongono sfilate di moda con il tema del velo. Sono quindi gli italiani, in generale gli europei che conoscono ancora poco della realtà islamica a stupirsi e, attraverso questa normalizzazione del velo, ad abituarsi a questo nuovo messaggio che sembra dire “L'Islam è cool”. Può forse essere interpretato anche come un messaggio contro la discriminazione che vivono gli immigrati di fede musulmana nei paesi europei».
Quello che ci stupisce di più è constatare come nell'islam ci sia una componente più frivola?
«Assolutamente si. Ci sono gli aspetti della bellezza e della cura che rafforzano l'idea che essere coperti non significa non essere belli, attraenti o non eleganti.
Si dice in antropologia che l'abito è sempre espressione di cultura. Forse l'Occidente, dopo aver spogliato e tolto i vestiti alle proprie modelle e ai propri modelli, è stufo. Sono evoluzioni che nella nostra cultura ci sono sempre state. Pensiamo alle patrizie romane che si coprivano per uscire ed erano sempre velate, poi alle mode del '700, quando il seno doveva essere visibile. Si va sempre verso delle evoluzioni.
In questo caso, io credo che il velo debba essere allontanato dall'idea di spiritualità, lo demistificherei nel senso che spesso più che di spiritualità si tratta proprio di identità, un concetto più forte nella nostra epoca.
Credo che oggigiorno parlare di velo voglia dire parlare di identità e di accettazione. In questo momento in cui si discute di scontri di civiltà, queste identità vengono fuori con più forza per affermare di essere presenti, di voler essere accettate e integrate e far parte di questa unica cultura che, secondo me, deve tutelare e non omologare le sue minoranze. Il mondo della moda se ne sta accorgendo più velocemente di noi».