La lezione del Pakistan: non esiste solamente l'Isis
22 gennaio 2016
La difficoltà dei nostri media a comprendere e ricostruire una realtà complessa
Non esiste solamente l’Isis. Questo ci ricordano, nella crudezza dei numeri (trenta morti e oltre sessanta feriti, tra studenti, professori, sorveglianti, agenti di polizia), gli attentati del 19 gennaio in Pakistan.
L'attacco, rivendicato dal gruppo Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp) – i cosiddetti “talebani pakistani” – giunge a un anno dall'attentato alla scuola militare che il 16 dicembre 2014 uccise a Peshawar oltre 150 persone, per la maggior parte giovani studenti. Un mese dopo, in Occidente, i social network si sarebbero riempiti di #JeSuisCharlie; non si avvistarono, allora, ashtags #JesuisPeshawar. Normale, si obietterà, perché a Parigi ci siamo stati, a Peshawar no. Sappiamo che i morti sono tutti uguali, ma il piangerli è un’insindacabile reazione personale, un “sentire” in cui è comprensibile che l’empatia verso “il simile” giochi un ruolo di primo piano. Tutto vero. Tuttavia, le reazioni collettive sono indicatori importanti della capacità di analisi di un paese, dell’Europa e dell’Occidente nel suo insieme.
Quali e quanti sono gli Islam politici? Che rapporti intrattengono gli “studenti coranici” che governarono l’Afghanistan dal 1996 al 2001 con i più recenti ripropositori del Califfato? Su questi temi l’attenzione dei media italiani è intermittente (si segnala in merito un eccellente contributo di Rai Storia, fiore nel deserto) e i silenzi della politica, a volte, imbarazzanti. Spulciando il sito dell’Ansa si apprende ad esempio che subito dopo gli attentati pakistani i guerriglieri afghani hanno fatto esplodere un’autobomba nei pressi dell’ambasciata russa. Il tutto a pochi giorni da una conferenza tenutasi a Kabul a cui avevano partecipato, assieme ad afghani e pakistani, delegazioni russe e cinesi. Secondo Limes dalla conferenza era uscita una dichiarazione che invitava i taliban a sedere al tavolo delle trattative. Gli attentati pakistani potrebbero dunque essere anche una chiara risposta politica a quest’ipotesi.
A ben vedere, in questo duplice registro di attenzione (occidente/resto del mondo), si nasconde la nostra incapacità di “pensare globale”, di cogliere le connessioni, di dipanare gli scomodi fili del passato. È in questo ottuso provincialismo che si arena la nostra politica, il nostro dibattito pubblico (quale dei due è l’uovo e quale la gallina?). Indimenticabili, sotto Natale, le piramidi di carta della “profetessa” Oriana Fallaci costruite nelle zone-biblio degli Autogrill. In questo mondo complesso, impazza il mercato dei concetti semplici. I nostri ashtag e le ristampe di La rabbia e l’orgoglio in fin dei conti sono anche questo, un modo veloce per schierarsi senza comprendere, per autoassolverci.
Ahmed Rashid – che a differenza della Fallaci non è additato da nessuno come “profeta”, ma che da un po’ di anni si occupa dell’islam politico – ha recentemente definito il gruppo Ttp “nuovi taliban”. Varrebbe forse la pena di chiedersi il perché. Rileggere oggi i libri di Rashid – anch’essi divulgativi, mainstream, anche se non si trovano in autogrill – aiuta ad esempio a capire le origini dell’incubo con cui, ad ovest, si aprì il nuovo millennio con l’11 settembre. Grazie ai libri di Rashid oggi politici e analisti italiani hanno imparato a ripetere che nel corso degli Novanta, lo stato destrutturato dell'Afghanistan, stremato dall'invasione sovietica e dalla guerra civile (finanziata abbondantemente dagli Usa) fornì la conchiglia vuota per l'innesto dell’ideologia talebana, promossa dagli interessi pakistani e dalla rete terroristica di Al-Quaeda. Si spera che tra vent’anni capiremo anche le origini dell’Isis, degli attentati di ieri in Pakistan, nonché i rapporti tra i due fenomeni. Traendo lezione dalle complessità passate, sarebbe forse il caso di porsi più rapidamente le domande giuste, accettando al contempo di essere pazienti e profondi nella ricerca delle risposte.