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Slovenia, cresce la voglia di muri alle porte dell’Unione europea

Nelle ultime settimane la Slovenia, primo paese dell’area Schengen risalendo i Balcani, è diventata uno snodo centrale nel viaggio dei profughi in fuga dalla guerra siriana e in cerca di una nuova vita in Germania o nel nord dell’Europa

Il valico di Šentilj, tra Slovenia e Austria, si trova ad appena dieci chilometri da Maribor, capoluogo della Stiria slovena e secondo centro del paese, una città che ospita ogni anno una delle gare della Coppa del Mondo femminile di sci alpino. Questo piccolo centro è diventato nelle ultime settimane lo snodo principale attraverso cui passano i profughi che percorrono la rotta balcanica, e lo è diventato da quando l’Ungheria ha deciso di erigere un muro a difesa dei propri confini, interrompendo il percorso che univa Serbia e Germania attraverso Budapest e Vienna. Stefano Lusa, caporedattore del programma informativo di Radio Capodistria, storica emittente slovena in lingua italiana e parte del sistema delle emittenti statali slovene, lavora da tempo per comprendere e conoscere questi luoghi di confine.

La Slovenia si è ritrovata al centro della rotta balcanica quasi senza preavviso. Come ha reagito?

«La Slovenia è entrata suo malgrado a far parte della rotta balcanica e nei primi giorni dell'emergenza profughi si è trovata travolta, quasi sorpresa. Molti in effetti sono stati “sorpresi dalla sorpresa” con cui il paese ha gestito i primi momenti.

Inoltre, ci sono state tensioni con Zagabria: nel momento della chiusura dei confini tra Ungheria e Croazia, infatti, la Slovenia aveva detto di essere pronta ad accogliere 2.500 profughi al giorno, anche perché Lubiana aveva detto chiaramente che intendeva rispettare con rigore le norme di Schengen, che impongono una meticolosa registrazione dei migranti, a differenza di molti paesi circostanti.

Nella mentalità slovena c’è la convinzione che le regole vadano seguite, e visto che il paese è anche il primo dell'area Schengen, il governo non era disposto a rinunciare alle procedure definite in passato. La Slovenia ha gestito con un certo nervosismo i primi giorni dell'emergenza profughi, anche perché è mancata la collaborazione con la Croazia, che a un certo punto, quando ha capito che gli sloveni non avrebbero fatto entrare tutte le persone in modo indiscriminato e senza controlli, ha cominciato a lasciare i profughi nei pressi del confine ma non nelle aree concordate».

Domenica 25 ottobre il vertice dell’Unione europea dedicato alle migrazioni nei Balcani ha portato a un'intesa che ha ridefinito procedure e quote d’accoglienza. C’è in effetti, vedendo la situazione in prima persona, un “prima” e un “dopo”?

«C’è una scena che è girata molto, e che colpisce anche perché la Slovenia non è spesso nelle copertine dei giornali di tutto il mondo, ed è la scena del poliziotto a cavallo con dietro una schiera di profughi che a piedi stavano andando verso un centro di raccolta. Questa scena descrive il “prima”.

Quello che è interessante è invece che dopo il vertice del 25 ottobre tra i paesi della rotta balcanica insieme alla Germania e agli altri paesi dell'Unione europea in qualche modo è stato mediato un accordo tra Slovenia e Croazia. Adesso i profughi arrivano in Slovenia direttamente con i treni croati, e questo consente di evitare che i profughi bivacchino all'addiaccio, sotto le intemperie, nei prati della bassa Carniola da dove entravano. Ora arrivano direttamente coi treni e poi con gli autobus vengono trasferiti a Šentilj. Ci troviamo di fronte a un corridoio aperto che parte da Šid in Serbia, dove i profughi vengono caricati sui treni croati per arrivare fino ai confini sloveni, e poi dai confini sloveni verso l'Austria, dove, stando a quanto dicono i poliziotti austriaci, vengono caricati sugli autobus e vengono portati direttamente a Passau, al confine tra Austria e Germania.

La conseguenza, dall’altro lato, è che sia la Croazia, che prima si era trovata travolta dall'emergenza profughi, e adesso anche la Slovenia, hanno in qualche modo cercato di rendere il fenomeno il più invisibile possibile, nel senso che proprio il trasporto organizzato attraverso il territorio rende l'emergenza profughi invisibile per i cittadini sloveni e croati. Se non si capita alla stazione del treno o al valico di frontiera di Šentilj, che però è chiuso, i profughi non si vedono».

 

Foto Stefano Lusa

Posted by Radio Capodistria on Mercoledì 21 ottobre 2015

Si rafforza l'idea di Slovenia e Croazia come paesi di transito. C'è l'evidenza di qualcuno che ha deciso di fermarsi in Slovenia o invece il percorso continua sempre?

«Le persone che decidono di fermarsi in Slovenia si contano sulle dita di una mano, sono qualche decina da quando l'emergenza è iniziata. Ho avuto modo di parlare con i profughi, e nessuno di loro ha la minima intenzione di fermarsi in Serbia, in Croazia o in Slovenia, ma nemmeno in Italia. Per loro le mete sono la Germania e i paesi scandinavi».

A livello di opinione pubblica che clima si respira in Slovenia a proposito del transito di profughi?

«Quello che si può respirare in questo momento in Slovenia è un clima di estrema incertezza. La questione dei profughi viene gestita come una questione di ordine pubblico più che come un'emergenza umanitaria e quindi il tutto è organizzato di conseguenza: molta polizia, una forte presenza dell'esercito, tutto molto controllato organizzato e con pochi contatti dei profughi con la popolazione».

Quali sono le principali preoccupazioni?

«Tra i messaggi lanciati dai politici e anche da qualche alto prelato c'è molto timore per la sicurezza, ma soprattutto c'è preoccupazione per quello che potrebbe avvenire se la Germania o l'Austria dovessero decidere di chiudere i loro confini. C'è la paura che queste persone possano rimanere intrappolate qui e possano costituire un grave problema per l'ordine pubblico, ma anche per gli usi e i costumi. Il vescovo di Murska Sobota ha proprio sottolineato questo timore parlando di islamizzazione. Sia una parte della classe politica, sia le istituzioni in generale hanno ricevuto e rilanciato appelli della società civile e anche dei giornali per abbandonare questo tipo di approccio e questa visione dei profughi solo come un problema di ordine pubblico o come una minaccia del quieto vivere nel paese».

È anche a queste persone che si riferisce quando scrive “piccoli Orban crescono”?

«I “piccoli Orban” crescono ovunque, anche in Austria, dove si parla di voler mettere le barriere al confine con la Slovenia, è di martedì la notizia che il capo di governo sloveno Miro Cerar ha parlato per la prima volta di “barriera” al confine, assecondando una richiesta fatta a gran voce anche dall'opposizione per evitare ingressi incontrollati in Slovenia. Secondo il maggior quotidiano sloveno, il Delo, ci sarebbe già stata una commissione di filo spinato che dovrebbe arrivare dalla Polonia. Il governo non ha né smentito né confermato, ma quello che si respira nell'Europa dell'est e in tutta l'Europa centrale è questa voglia di muri che sta crescendo un po' dappertutto.

Quello che però è mancato e che hanno denunciato sia i politici sloveni sia altri, ma anche lo stesso Orban per una volta, è che manca una politica europea nei confronti del problema migrazione, manca un qualsiasi tipo di ragionamento strategico sulla gestione del fenomeno. È semplice scaricare la questione sui paesi della periferia d'Europa, tra cui anche l'Italia, che da anni gestisce l'emergenza profughi e chiede che venga condivisa, e questo ci fa capire che non si è mai voluto fare un ragionamento comune e mi pare che neanche in questo momento si voglia fare un ragionamento più ampio, europeo. Continuare a trattare la questione utilizzando il termine “problema” indirizza a una politica che non può essere altro che emergenziale e che come abbiamo visto non funziona».

Foto Stefano Lusa via Twitter, per gentile concessione

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