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Il Mediterraneo tra turismo e colonialismo

Un libro per turisti italiani in Tunisia del 1912 è il punto di partenza per interrogarsi su come percepiamo il territorio e come lo modifichiamo attraverso la nostra esperienza

Un giorno in un mercatino dell’antiquariato di Genova, Fabrizio Vatieri e Laura Lecce, artisti partenopei, trovano un libro del 1912, una guida per turisti italiani in Tunisia. Pagine che parlano di un territorio ma anche della storia d’Italia, della voglia di scoperta e conquista di nuovi mondi, in linea con quanto a inizio Novecento facevano le principali potenze europee affamate di estendere i propri territori. Il turista italiano andava quindi in Tunisia e ne scopriva i paesaggi esotici, li faceva propri e si riportava indietro immagini, oggetti e parole che poi hanno indipendentemente preso una loro strada. Gli strati della storia si confondono con quelli dell’esperienza personale dell’esploratore, che poi si sommano con altre esperienze e storie. Questa indagine intorno alle culture del Mediterraneo è alla base del progetto Pelagica, di cui parla Fabrizio Vatieri.

Può parlarci del progetto?

«Pelagica è un progetto di ricerca e curatoriale sullo scenario mediterraneo. È nato da una serie di viaggi compiuti nel Mediterraneo e da un progetto fotografico partito nel 2012 che si chiamava Mediterranean Drama di cui ci occupavamo io, come fotografo, e Laura Lecce che curava i testi.

È un ambiente a noi molto caro perché ci siamo nati e cresciuti, fino ad accorgerci di avere l’esigenza di esplorarlo meglio, andare oltre alle fotografie e far emergere una visione un po’ più ampia, trasformandolo in una ricerca più complessa. Con Pelagica abbiamo voluto proseguire il nostro lavoro e coinvolgere di volta in volta vari artisti con cui collaboriamo e organizziamo mostre, come quella ora in corso, La Tunisia.

Il nome Pelagica si riferisce alla profondità del mare e alle sue varie stratificazioni: ci piaceva pensare di usare questo nome molto evocativo e diretto, anche perché simbolicamente noi lavoriamo con la pratica artistica, con i media visuali o le installazioni, le performance e il suono e anche queste per noi sono varie stratificazioni che corrispondono al nome che abbiamo scelto».

Si tratta quindi di un progetto partito grazie a una serie di esplorazioni che poi è evoluto diventando un discorso sulle culture del Mediterraneo attraverso l’arte?

«È stato abbastanza naturale questa evoluzione, io sono un artista e Laura una curatrice. Insieme abbiamo unito le forze per rispondere a un’esigenza: occuparci del territorio al quale apparteniamo. Anche se non lo conosciamo alla perfezione sentiamo un legame profondo. Questo non è un progetto che racconta le culture del Mediterraneo in quanto tali, ma ha attuato un’esplorazione dell’area mediterranea attraverso la pratica artistica. Il progetto è nato soprattutto per mettere in relazione una serie di concetti, anche perché parlare di quest’area è piuttosto generico, ma per noi il focus è soprattutto sul rapporto tra turismo e colonialismo, tra il paesaggio e l’immaginario legato a quello che noi abbiamo vissuto direttamente attraverso i nostri codici: io e Laura siamo entrambi napoletani e abbiamo dei simboli di riferimento per interpretare quello che vediamo».

Com’è nata la mostra La Tunisia?

«Circa due anni fa, poco prima che nascesse Pelagica, in un mercato d’antiquariato di Genova abbiamo trovato un libro del 1912 intitolato La Tunisia: un testo redatto dal Corpo di Stato Maggiore italiano in cui si parlava del territorio della Tunisia con toni piuttosto ambigui che stavano tra il manuale scolastico, la guida turistica e la guida per colonialisti. Ci è sembrato opportuno confrontarci usando questo libro come espediente per animare uno scambio di vedute fra noi e alcuni nostri collaboratori proprio su cosa lega e divide turismo e colonialismo, due prospettive che spesso si confondono l’una con l’altra, soprattutto in questo periodo storico e nell’area geografica in esame. Anche per questo abbiamo scelto, in questa prima fase, di non occuparci direttamente di questo territorio ma di lavorare sull’immaginario e su quello che non viene afferrato ma solo percepito attraverso racconti, visioni e immagini. Abbiamo cominciato un anno fa coinvolgendo altri artisti e ognuno di loro ha contribuito con una sua visione, quello che c’è in mostra è il risultato di questa prima fare di lavoro, poi continueremo la ricerca».

Quali riflessioni sono emerse e come sono state sviluppate?

«Il modo migliore per raccontarlo forse è parlare dei progetti portati a termine. Già prima di La Tunisia ci stavamo confrontando sulla questione dell’autenticità del paesaggio e sul modo enigmatico con cui il turista e il viaggiatore percepiscono lo spazio. Molto spesso gli stessi abitanti di un territorio non hanno ben chiara quale sia l’autenticità dei luoghi. Il motivo del nostro lavoro è indagare la verità dei luoghi e la loro ineffabile manifestazione. Non siamo intenzionati a rimandare a una verità “altra” o alternativa, ma mettere in discussione quello che percepiamo, per esempio come il colonialismo ha trasformato, attraverso una serie di eventi, il significato o la percezione di un posto o di un oggetto.

Un lavoro, in particolare, è stato fatto proprio con le parole. Un esempio è il termine “crumiro”: dall’indicare un’appartenenza culturale e territoriale la parola è passata ad indicare chi non scioperava negli anni Settanta – questo per via di uno sciopero di militari avvenuto a Marsiglia – per poi indicare un biscotto e anche un paio di scarpe. Questo perché anche le parole insieme agli oggetti si muovono, passano da un territorio all’altro e diventano qualcosa di diverso. Un altro tema molto caro è quello dell’esotismo, dell’allucinazione di cui noi stessi siamo vittime essendo così legati all’immagine.

Il mio contributo è legato alla lingua e vuole invitare alla riflessione sulla confusione che si fa sulla lingua araba, che in questo momento storico è associata ad informazioni non edificanti. Si

tratta di elaborare ed esplorare quelli che sono gli incontri tra storie e manufatti, privandoli del significato abituale, riproponendoli solo come oggetto fisico che vicino a qualcos’altro e qualcun altro ricreano un altro tipo di relazione, un nuovo contatto fra culture e storie diverse».

Foto via. Immagine © Pelagica 2015

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