A Gerusalemme le violenze portano nuove domande
13 ottobre 2015
Mentre si fanno più insistenti le voci dell’inizio di una terza Intifada, gli israeliani, i palestinesi e anche la comunità cristiana, devono trovare delle risposte ai problemi di questi mesi
L’inizio del mese di ottobre ha portato con sé nuove violenze e tensioni a Gerusalemme e nei territori occupati palestinesi. Ieri il bilancio delle vittime si è ulteriormente aggravato con l’uccisione da parte della polizia israeliana di due giovani ritenuti responsabili di attacchi contro poliziotti e cittadini israeliani nel contesto di quella che alcuni media israeliani hanno definito “Intifada dei coltelli” o “terza Intifada”.
Questo termine va utilizzato con cautela, perché indica una forma di ribellione che storicamente identifica azioni coordinate e con un carattere decisamente meno episodico rispetto a quanto si sta verificando. Secondo Luigi Bisceglia, volontario del Vis e docente presso l’Università di Betlemme, è presto per dirlo. «Bisogna capire dove vuole andare politicamente il governo israeliano. Basta poco, è vero, ma non me la sento di dire che sia cominciata, anche perché, soprattutto sul lato palestinese, si ricordano ancora le conseguenze della seconda Intifada, e quindi si riflette più volte prima di mettere a repentaglio la propria famiglia, non avere più lavoro, rinunciare ciò che ci si è dovuti riconquistare dopo i conflitti precedenti».
Anche per Michele Giorgio, corrispondente del Manifesto da Israele e Palestina, la situazione è in divenire, mentre sono decisamente più chiare le cause. «Credo che la questione della Spianata delle Moschee sia essenziale per capire cos’è successo nelle ultime settimane e negli ultimi mesi – racconta –, ma soprattutto per metterci in guardia su ciò che potrebbe accadere in futuro».
È proprio il futuro a preoccupare maggiormente i palestinesi, che si stanno trovando ad affrontare le difficoltà di un cambiamento generazionale che i vertici dell’Anp e dell’Olp non sembrano volere o poter gestire. In un territorio in cui oltre la metà della popolazione ha meno di diciotto anni, dipendere da un presidente che ha compiuto ottant’anni pochi mesi fa sembra un controsenso. Forse non lo è, ma sicuramente sta diventando un problema: recentemente Abu Mazen aveva rassegnato le proprie dimissioni da capo dell’Olp per proporre nuove elezioni nazionali e politiche, ma il consiglio dell’organizzazione ha respinto le sue dimissioni. «Quel che è certo – spiega Michele Giorgio – è che se Abu Mazen vuole tornare a fare il leader dovrà dire qualcosa ai suoi cittadini in una fase così confusa».
Osservare a quello che sta accadendo nel luogo che da un lato viene chiamato Monte del Tempio e dall’altro Spianata delle moschee consente di comprendere meglio alcuni aspetti–chiave. Secondo quanto raccontato dall’ex presidente della Knesset, Avraham Burg, quella attuale si può ritenere la “fase del terzo tempio”, cominciata nelle intenzioni già con l’occupazione del 1967, che prevede la “riconquista” israeliana del Monte del Tempio, sul quale sorge da circa 1.300 anni la Moschea di Al-Aqsa, terzo luogo sacro dell’Islam. Nel governo israeliano non sembra esserci unità d’intenti, perché da un lato Netanyahu ha dichiarato di voler mantenere immutato lo status quo, mentre il ministro della sicurezza ha dato disposizione per cambiare le regole d’ingresso sulla Spianata fornendo garanzie crescenti ai gruppi sionisti. Siamo quindi di fronte a un conflitto che da politico sta diventando religioso? «Assolutamente no», spiega Luigi Bisceglia. «È importante sottolineare che Gerusalemme è la città santa delle tre religioni ed è unica al mondo, ma questo non c’entra con il conflitto, che è geopolitico e non scontro di civiltà e religioni», e questa tesi sembra confermata anche da Michele Giorgio, che spiega che «sembra quasi che, per motivi propagandistici, si voglia voler trascinare i palestinesi sullo stesso livello dell’Isis o di Al-Qaeda, perché questo favorisce alcuni tipi di narrazione e di richiami alla paura».
Niente jihad e niente Intifada dunque, almeno per il momento, anche se nessun membro di nessuna religione può chiamarsi del tutto fuori. Anche i cristiani in Palestina sono stati coinvolti negli scoppi di violenza degli ultimi mesi e sono stati vittime di alcuni incendi, tra cui quello in Galilea, nella chiesa della Moltiplicazione dei pani e dei pesci, e quello vicino a Betlemme di alcuni mesi fa. «Che i luoghi di culto siano presi di mira è un dato di fatto – racconta ancora Bisceglia – ma le motivazioni sono territoriali e politiche. Per dimostrarlo è bene ricordare che, quando due settimane fa ci sono stati i primi attacchi israeliani con i lacrimogeni sulla Spianata delle moschee, la comunità cristiana ha espresso solidarietà in modo unitario all’autorità islamica che è custode della moschea di Al-Aqsa. Il problema comunque riguarda tutti, perché è necessario custodire i luoghi di culto che sono sacri e inattaccabili».
Nonostante la questione israeliano–palestinese sia riuscita negli anni a tenere da parte le spinte dei movimenti religiosi più estremisti e a garantire alla Palestina la condizione di luogo molto più moderato rispetto ai paesi circostanti, le comunità cristiane nella regione si sono sempre più ridotte, fino a una popolazione che attualmente è stimata in circa 50.000 fedeli. «Pur non vedendo una Terrasanta e una Palestina senza cristiani – conclude Luigi Bisceglia – mi chiedo quale sia il loro ruolo, il nostro ruolo. C’è un problema che va affrontato, e penso che si debba fare di più, come cristiani in Terrasanta e anche come comunità internazionale, perché non si può pensare di andarsene da Betlemme o da Gerusalemme. È umanamente e politicamente impensabile. Sarebbe l’ammissione di un fallimento».