I passi indietro di Assad porteranno avanti la Siria?
07 ottobre 2015
Le aperture del presidente siriano verso un avvicendamento alla guida del paese segnano un rafforzamento del ruolo russo sul piano diplomatico, mentre su quello militare i bombardamenti colpiscono i gruppi ribelli ma non sembrano indebolire il gruppo Stato islamico.
Questa mattina la Siria si è svegliata sotto il più grande bombardamento russo dall’inizio della guerra, rivolto in particolare alle aree di Idlib e Hama, occupate dai ribelli. Fatti come questi fanno pensare a uno scenario sempre più confuso e nel quale la diplomazia ha lasciato definitivamente spazio alla violenza e alle bombe. Eppure la diplomazia, il lato nascosto del conflitto siriano, è in movimento, e questa settimana ha portato con sé le dichiarazioni del presidente Bashar al-Assad, che all’emittente iraniana Khabar Tv ha annunciato per la prima volta la propria disponibilità a fare un passo indietro «se questo dovesse servire a risolvere il conflitto».
Il fatto che queste dichiarazioni arrivino a meno di un mese dall’ingresso ufficiale della Russia nel conflitto non può essere casuale, visto che proprio Putin, storico alleato di Assad nella regione e sostenitore di una linea che l’ha portato più volte allo scontro diplomatico con l’Occidente, ha appoggiato pubblicamente questa ipotesi. Addirittura, secondo Marco Pasquini, presidente della cooperativa Armadilla, una tra le uniche realtà occidentali ancora in grado di operare in territorio siriano, l’apertura di Assad è «un passo dovuto».
L’ingresso della Russia nel conflitto siriano, sia sul piano diplomatico, sia su quello militare, va a rompere lo stallo nel quale ci si trovava?
«Russia e Stati Uniti sono in realtà molto più vicini a un accordo sulla Siria rispetto a quanto venga raccontato nel campo della comunicazione internazionale, però il fronte occidentale si aspettava dai russi una prova delle loro capacità di gestire una situazione di transizione nel paese. Ecco, questo è arrivato con le dichiarazioni di Assad, che ha accettato l’idea di poter essere messo da parte nel corso di una futura transizione, che va comunque vista nei limiti di una trattativa che sul piano diplomatico sarà ancora lunghissima. Sarebbe però ingiusto dimenticarci che questo percorso era stato già avviato da Staffan De Mistura, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria. Di questo dobbiamo essere un po' fieri come italiani e un po' contenti per quanto riguarda la prospettiva internazionale».
Ha accennato alle dichiarazioni rilasciate dal presidente siriano Assad all’emittente iraniana Khabar Tv. Quindi vanno prese sul serio?
«Assolutamente sì, perché questa apertura è una conditio sine qua non per andare avanti nella trattativa, che vede Stati Uniti e Russia in prima fila e nella quale anche l’Iran sta svolgendo un ruolo molto importante.
Insomma, c’era bisogno di questa dichiarazione, anche perché a mio parere oggi non c’è un'alternativa a questa posizione di apertura nel lungo periodo, così come nel breve non ci sono altre figure che possano sostituire Assad, né sul piano militare e nemmeno su quello della società civile. Da un lato apre alla strada di un passo indietro del presidente siriano, ma dall'altra parte lo legittima nuovamente come interlocutore».
Se sul piano diplomatico sembra un importante punto di partenza, riconoscendo anche l’interesse russo nella regione, sul piano militare l’intervento sembra mancare di legittimazione. È così?
«Forse soltanto qualche libro ci può raccontare che le operazioni militari degli ultimi anni sono state compiute esclusivamente sotto la stella dei diritti umani e della libertà. Ogni operazione ha una legittimità limitata. Comunque la Siria da un punto di vista strategico è assolutamente necessaria per la Russia, anche per rafforzare l’asse con l’Iran. Il discorso è molto simile a quello dell’appoggio che hanno avuto e hanno tutt’ora gli Hezbollah libanesi.
Però, al di là delle cornici di legittimazione, è importante notare come incredibilmente gli Stati Uniti, per la seconda volta dall’agosto del 2013 siano riusciti a farsi mettere in una posizione di inferiorità diplomatica e siano stati messi nella condizione di dover dire necessariamente “sì” alla Russia».
La Siria, ammesso che rimanga un paese da chiamare Siria anche in futuro, sarà un paese da reinventare una volta finita la guerra. Ci sia qualche elemento al quale ci si potrà aggrappare per ripartire?
«Facendo un passo molto lontano nel tempo, onestamente non so come sarà la Siria. L'unica cosa certa è che non sarà il paese che abbiamo conosciuto fino al 2011. Sarà sicuramente una Siria divisa, un luogo nel quale, e questo mi piange il cuore doverlo dire, la componente religiosa avrà un'importanza strategica, mentre in passato era un paese in cui da un punto di vista interconfessionale c'era una grande apertura. Mi piace sempre raccontare dei nostri logisti, dei ragazzi musulmani sunniti che aiutavano durante la pasqua cristiana i nostri amici sacerdoti per le loro funzioni. C'era un'apertura totale. Purtroppo, invece, la Siria sarà rappresentata invece da un punto di vista esclusivamente religioso».
E poi non possiamo dimenticare la minoranza curda e il suo ruolo nella transizione.
«Esatto, non possiamo parlare del futuro della Siria senza parlare di quello del Kurdistan. Del resto, le operazioni che la Turchia svolge con l’appoggio di Stati Uniti, Francia e Inghilterra, insieme al Qatar e all'Arabia Saudita, sono rivolte proprio a mantenere un equilibrio fragile tra il mondo curdo e il gruppo Stato islamico. Tuttavia, nel momento in cui si arriverà a una soluzione negoziata in Siria il problema verrà fuori, e difficilmente la comunità internazionale potrà dire no a uno stato unitario curdo. Anche l’opposizione turca alla presenza russa va letta in quest’ottica: Ankara si vuole proteggere preventivamente in vista di una futura apertura al mondo curdo».