Libia, gli accordi incompleti
16 luglio 2015
La firma dell’intesa di Skhirat non conclude la guerra nel paese: sono ancora troppi i punti di disaccordo. Eppure qualcosa sembra muoversi.
Sabato 11 luglio a Skhirat, in Marocco, è stato firmato il primo accordo di pace e riconciliazione della Libia da quando è cominciato il conflitto che oppone i governi di Tripoli e Tobruk e che ha spezzato in due il paese.
Tuttavia, al testo proposto dalle Nazioni Unite manca la firma di una delle due parti principali, quella del Parlamento non riconosciuto di Tripoli.
Con queste premesse, la sensazione è quella di trovarsi di fronte a una farsa, a un accordo inesistente sottoscritto solo per poter rivendicare un risultato. Eppure la Libia non è un conflitto tra due soli attori, e l’adesione all’intesa da parte di numerose comunità locali e tribali segna probabilmente un passaggio importante nella legittimazione del governo internazionalmente riconosciuto con sede a Tobruk, soprattutto perché tra le fazioni che hanno aderito si ritrova quella di Misurata, alleata fino a poco tempo fa con la coalizione Alba Libica che controlla Tripoli. Il diplomatico spagnolo Bernardino Léon, che coordina i negoziati, ha definito l’accordo «una cornice globale per continuare la transizione politica iniziata nel 2011».
Il documento prevede la fine dei combattimenti e la formazione di un governo di unità nazionale e la cessazione del conflitto nell’ottica di scrivere una nuova costituzione condivisa. Ma, viste le premesse e la mancanza di una mutua legittimazione tra le principali parti in conflitto, si arriverà mai a questo punto? Lo abbiamo chiesto a Giuliano Luongo, direttore del programma Africa dell’IsAg, Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie.
Dobbiamo partire dall’assenza di Tripoli ai negoziati di Skhirat, perché ci porta a chiederci: cosa significa questo accordo?
«Un accordo di pace che deve coinvolgere diversi attori, come le istituzioni e comunità locali, ma che vede mancare la firma del contraltare principale, è un accordo di pace che ha un’incisività molto labile. Un negoziato, infatti, si fa per portare due o più parti a convergere su determinati punti. A questo va aggiunto che i negoziati non sono una novità e che vanno avanti da parecchio tempo: si sperava di avere un’intesa completa già mesi fa, con la firma di tutte le parti coinvolte. Anche nei casi precedenti Tripoli si era rifiutata di sottoscrivere alcunché».
Con le comunità locali il discorso è differente. Dopo la caduta di Gheddafi si è vista una polverizzazione di queste realtà, che si sono legate e slegate in modo molto dinamico. Cosa prevede l’accordo per loro?
«Si prevede una sorta di coinvolgimento generale delle comunità per costituire nuove istituzioni condivise che riescano a controllare l’intero territorio libico. Si parla addirittura di una nuova intera Costituzione scritta da tutte le parti in gioco a più livelli. Diciamo che dal punto di vista teorico avere un approccio bottom-up, coinvolgere anche altre comunità che non sono espressione diretta di istituzioni legalmente più alte, è di per sé una cosa positiva soprattutto per disinnescare nuovi conflitti e tensioni future. Dall’altro lato, però, più sono le voci coinvolte, più è possibile che ci siano rallentamenti nel processo».
L’adesione di alcune comunità locali non rende forse più debole la posizione di Tripoli, che si trova più isolata?
«Indubbiamente. Se andiamo all’origine della divisione del paese sotto l’egida di questi due governi e di questi due parlamenti vediamo che la causa prima è legata alla volontà di entrambi di dare un’impronta propria alla creazione delle istituzioni della nuova Libia. Ora, il fatto che Tripoli non voglia dare la sua adesione significa che è un’istituzione che non vuole cedere sulle proprie posizioni. Vedere che molte delle comunità si spostano dal fronte al loro opposto è un segno del progressivo isolamento di Tripoli, ma può darsi che Tripoli cerchi di tenersi volutamente isolata per dare un’ulteriore dimostrazione di forza. “Anche davanti a una convergenza opposta delle istituzioni”, sembrano dire, “noi cerchiamo di resistere”.
Il problema è che le vedute sono diverse sull’impostazione di alcuni punti in particolare si deve riflettere sulla possibilità che Tripoli voglia allinearsi a livello internazionale in modo differente rispetto a quanto ha fatto Tobruk. Il governo di Tripoli, infatti, non è riconosciuto dalla comunità internazionale ma ha un appoggio informale da altri paesi, come per esempio la Turchia».
Dall’altro lato l’Egitto è in prima linea a favore di Tobruk. Non si è più sentito molto parlare di Khalifa Haftar, che è stato sulle prime pagine dei giornali per parecchio tempo come “uomo nuovo” e forse come “progetto egiziano” in Libia. La sua figura è un po’ in discesa anche nelle preferenze internazionali?
«Sembrerebbe di sì. È stata una figura propagandistica mirata a promuovere una certa idea su come riportare la Libia alla pace e all’ordine, di farla uscire dal conflitto interno e di cercare di allontanare le spinte estremistiche. Dall’altro lato, essendo la sua figura vista come più strettamente miliare e volendo cercare di portare l’accento su una pacificazione diplomatica condivisa, può darsi che sotto questo punto di vista la sua forza mediatica sia stata percepita come calante, e quindi il suo ruolo pubblico abbia iniziato a scemare».
Dobbiamo aspettarci qualche nuovo “uomo forte” o si va verso una nuova fase?
«Dipende sempre dalla forza degli attori “distruttivi” presenti sul territorio, come il gruppo Stato islamico e in generale le comunità che si attivano con strumenti propri del terrorismo. Chiaramente, più sarà forte la presenza di terroristi più si sentirà il bisogno di rivolversi a uomini forti, maggiore sarà quindi la possibilità dell’apparizione sulla scena di un altro uomo che potrebbe essere tanto costruttivo quanto ancor più distruttivo. Questi personaggi che vengono dal mondo militare in queste situazioni caotiche tendono ad accentrare poteri e simpatie e spesso possono creare ancora più squilibri degli equilibri che vorrebbero creare. Per contro, se il processo di pace continuerà ad andare avanti e si sentirà un bisogno minore di mettere la lotta armata contro il terrorismo in prima fila, sia praticamente che mediaticamente, il paese forse non avrà bisogno di identificare nuovi uomini forti, nuovi condottieri».
A un certo punto, questa primavera, l’opzione di un intervento militare occidentale sembrava concreta. A distanza di mesi se ne parla di mesi perché è una prospettiva più lontana?
«L’idea di un intervento militare condiviso va a scemare perché si sta cercando di puntare maggiormente sul processo diplomatico, e si sta cercando in questo modo di far mancare l’occasione di creare un nuovo intervento militare in una situazione in cui ci sono ancora due governi. Probabilmente si parlerà di un intervento armato con maggiore concretezza nei due scenari estremi: quando si arriverà a un punto di stallo ancora peggiore di quello attuale, oppure quando si riuscirà a formare un unico governo che dovrà poi affrontare in maniera più o meno dura e più o meno diretta le forze distruttive delle organizzazioni terroristiche ancora presenti sul territorio e attorno al territorio».
Dal punto di vista delle trattative diplomatiche quale elemento potrebbe permettere dei passi avanti più concreti?
«Bisognerebbe vedere effettivamente quanto aperte e quante inclusive saranno le trattative per la creazione della nuova costituzione. Tutti gli enti devono essere capaci di vedere tangibilmente che almeno una parte, per quanto piccola, della loro idea della nuova Libia sia presente nella nuova Costituzione. Finché passa il messaggio per cui esiste un solo parlamento egemone e l’alternativa è tra l’ubbidienza e il conflitto, allora le trattative saranno sempre allo stallo. Dall’altro punto di vista bisognerà anche vedere se Tripoli sarà disposta a cedere su alcuni punti e cosa le verrà offerto per spingerla a cedere sui temi di maggiore resistenza».