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Raif Badawi, il Giordano Bruno dei nostri tempi

Al blogger Raif Badawi è stata confermata da un tribunale saudita la condanna a dieci anni di prigione e a mille frustate. Nell'area anche la Turchia ha dei problemi con la libertà di stampa, ma i risultati delle ultime elezioni potrebbero cambiare la situazione

La corte suprema dell’Arabia Saudita ha confermato la sentenza di mille frustate e dieci anni di carcere nei confronti del blogger saudita Raif Badawi per apostasia, per aver violato le norme del diritto informatico e aver insultato le autorità religiose del paese. Il 9 gennaio, mentre rappresentanti sauditi manifestavano a Parigi contro il terrorismo e per la libertà di espressione, Badawi riceveva le prime 50 frustate in pubblico, di fronte alla moschea di al-Jafali a Gedda: «dopo le prime frustate siamo stati davanti all’ambasciata saudita a Roma, insieme ad altre sezioni di Amnesty e altre associazioni, come Articolo 21, per chiedere di fermare questa pena insensata – dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – Badawi e altri 11 prigionieri di coscienza in Arabia Saudita sono puniti solo per aver espresso opinioni, per aver invocato riforme, per aver chiesto diritti umani o aver difeso altri prigionieri di coscienza: in prigione c’è anche l’avvocato che ha difeso Raif Badawi».

Da tempo Amnesty propone un appello da mandare alle autorità saudite per la liberazione di questi prigionieri di coscienza: «le autorità saudite vorrebbero sentirsi dire da Amnesty International che ci arrendiamo e passiamo ad altro – continua Noury – ma così non è, raddoppieremo gli sforzi per ribadire che è inaccettabile e inammissibile che per aver scritto qualcosa su un forum si possa essere condannati al carcere e alle frustate che, nel caso di Badawi, ricominceranno venerdì e questo è un rischio che dobbiamo scongiurare». Secondo l'Ong Freedom House, l’indice di libertà di stampa nel mondo è sceso nel 2014 al livello più basso dagli ultimi 10 anni e l'Arabia Saudita è al 182 posto su 199 nella classifica: «la loro paura è la stessa di chi mise al rogo Giordano Bruno nel 1600 che, come Badawi, era un eretico che mise in discussione il pensiero dominante in modo innocente, dichiarando pubblicamente quello che pensava solo per il bene della comunità: la paura delle idee e la paura del potere di essere contestato se le opinioni girano liberamente» conclude Noury.

Anche la Turchia è considerata “non libera” dal punto di vista della libertà di stampa, ma negli ultimi giorni ci sono stati degli sviluppi interessanti grazie ai risultati delle elezioni che hanno fatto perdere la maggioranza assoluta al partito del presidente Erdogan e hanno fatto sedere in parlamento il partito curdo Hdp, a poco più di un anno dalla sua nascita. «La Turchia è il paese che forse ha il più alto numero di giornalisti in galera: molti sono curdi, molti sono imprigionati solo perché hanno affrontato la questione curda e sono accusati di attentato all’unità nazionale – dice Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 – e questo bavaglio ci riguarda: la Turchia tenta di entrare in Europa e il tema dei diritti civili e dell’informazione non può continuare a essere sullo sfondo della discussione». Erdogan e la sua politica mantengono comunque la maggioranza; il dubbio è che i risultati delle elezioni possano davvero cambiare la situazione. «Sì, oggi più di qualche giorno fa – secondo Giulietti –. In Turchia si è arrivati a disattivare Facebook e Twitter, a cancellare parole chiave, a bloccare l’uscita di quotidiani e radio. Con questi risultati si è aperto uno spiraglio: bisognerà vedere quale sarà la reazione della maggioranza, ma il quadro è più movimentato, con forze politiche che hanno intercettato il malessere delle questioni etniche, politiche e sociali. La situazione è ambigua, da un lato aperta alle innovazioni, dall'altra a rischio di repressione».

Sia nel caso di Badawi che in quello dei giornalisti turchi la comunità internazionale ha fatto dei tentativi di mediazione, ma «non sempre l’Europa ha esercitato una pressione coordinata e congiunta su questo tema, perché scattano altre valutazioni: di politica internazionale, di contrasto al terrorismo, di rapporti economici che a volte tendono a relegare sullo sfondo la libertà di espressione – sostiene ancora Giulietti – ma tutti possiamo scrivere all’ambasciata turca e chiedere la liberazione dei giornalisti ancora detenuti, chiedere l’eliminazione dei bavagli: potrebbe diventare una campagna nazionale da lanciare con Amnesty e con tutte le associazioni di giornalisti, ma sicuramente sarà l’impegno di Articolo 21 nelle prossime ore».

Foto di Amnesty Finland via Flickr | Licenza CC BY 2.0

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