La giustizia sospesa
27 maggio 2015
La recente condanna a morte dell’ex presidente Morsi ha destato l’indignazione generale ma in Egitto domina la parte più retriva della magistratura
Il 16 maggio, l’ex presidente egiziano Mohammed Morsi è stato condannato a morte per la sua evasione dal carcere di Wadi al-Natroun, nel gennaio 2011, durante la rivolta contro Hosni Mubarak. La sentenza è ora nelle mani del Mufti della Repubblica, che potrà respingerla o ratificarla. Il suo giudizio, però, non è vincolante, sebbene i giudici, di solito, tendano a rispettarlo, poiché un articolo della Costituzione (inserito negli anni ’80 durante il governo di Anwar al-Sadat) sancisce che la sharia è la fonte principale delle leggi, mentre al-Azhar (“statalizzata” al tempo di Gamal Abdel Nasser) è l’unica autorità riconosciuta in materia di sharia. Anche nel caso in cui il verdetto dei giudici venisse confermato dal Mufti, la sentenza sarebbe ancora appellabile, dunque l’esecuzione di Morsi non è cosa certa.
La condanna di Morsi alla pena capitale ha sollevato un polverone di indignazione. Occorre però ben distinguere l’oggetto di questa indignazione. Un conto, infatti, è denunciare l’esistenza della pena di morte in quanto tale, battaglia che tocca anche paesi come gli Stati Uniti. Un altro è far passare, più o meno esplicitamente, una narrazione di stampo “cileno” in cui il presidente Abdel Fattah el-Sisi/Pinochet avrebbe imprigionato ingiustamente l’innocente Morsi/Allende per accaparrarsi il potere e diventare il nuovo onnipotente dittatore dell’Egitto. Perché né Morsi è innocente (anche se eletto democraticamente), né el-Sisi è onnipotente.
Molti commentatori hanno insistito sul paradosso dell’assoluzione di Mubarak e della condanna di Morsi. La verità è che nessuno dei due ha ancora ricevuto, dal punto di vista giudiziario, pene adeguate per ciò che ha commesso ed è qui che dovrebbe attivarsi l’indignazione. Gli egiziani si sono già pronunciati chiaramente in proposito, con due rivolte di enormi proporzioni che hanno messo fine ai loro rispettivi governi. Ora, però, spetterebbe alla magistratura accertare in dettaglio, attraverso prove suffragate, precise colpe e responsabilità di ciascuno, evitando le punizioni (o le assoluzioni) collettive. Per esempio, il “flirt” dei Fratelli Musulmani con i gruppi terroristici entrati in azione dopo la destituzione di Morsi dovrebbe essere indagato seriamente. Un intero popolo è stato testimone, nell’anno di governo dei Fratelli Musulmani, dei loro discorsi settari e discriminatori che hanno legittimato episodi di violenza inauditi, come il linciaggio di un gruppo di sciiti. Un intero popolo è stato testimone delle azioni delle squadracce di islamisti che hanno preso e torturato dei manifestanti sotto il palazzo presidenziale, o che hanno terrorizzato interi quartieri sparando qua e là, ben prima del famoso “sgombero” del sit-in dei sostenitori di Morsi (che, secondo un’altra teoria diffusa, li avrebbe “radicalizzati”). Un intero popolo ha udito il presidente Morsi chiamare alle armi gli egiziani a fianco dei combattenti islamisti in Siria, di fatto dichiarando guerra a un altro Paese senza consultare nessuno. Un intero popolo, oggi, convive con gli attentati quotidiani degli islamisti seguiti alla destituzione di Morsi, tanto che è persino stata inventata una app per smartphone che avverte in tempo reale “dov’è la bomba?”. Ma colpe e responsabilità, con relative pene proporzionate, andrebbero differenziate fra chi si è effettivamente macchiato di violenza, chi l’ha comandata, chi l’ha fiancheggiata e chi non ha fatto assolutamente nulla. Stessa cosa vale per l’ex regime di Mubarak.
Tuttavia, l’attuale configurazione di poteri in Egitto (che regge anche grazie alla violenza islamista) dei quali el-Sisi è solo un esempio, conferisce massimo peso alla parte più retriva della magistratura, cui sono stati affidati i processi più “scottanti”. Le condanne a morte di massa di centinaia di imputati, per esempio, così come le condanne di famosi attivisti e dei giornalisti di al-Jazeera, sono tutte opera di un solo giudice, Nagy Shehata, considerato uno dei responsabili dei brogli elettorali del 2005 in favore del Partito Nazional Democratico di Mubarak. Ma proprio come allora ci fu un movimento di giudici che lottò contro i brogli e per l’indipendenza della magistratura, anche oggi vi sono giudici che lottano per applicare la legge in maniera giusta e indipendente. È recentissima la notizia che i diciassette membri dell’Alleanza Popolare Socialista arrestati per aver violato la legge antiproteste, in seguito alla manifestazione durante la quale la loro compagna Shaymaa al-Sabbagh fu uccisa a sangue freddo da una pallottola della polizia, sono stati rilasciati. L’assassino di Shaymaa, invece, è stato identificato ed è sotto processo. Nel frattempo, i partiti dell’ala democratica stanno raccogliendo le firme per abolire la legge antiproteste, sulla quale pende un pronunciamento della Corte Costituzionale.