Hong Kong, la chiesa metodista si fa mediatrice delle tensioni
08 ottobre 2014
Il pastore Howard Mellor, testimone delle proteste di questi giorni, analizza la rivolta che sta infiammando il Paese in un'intervista a Riforma.it
Mentre procedono a rilento le trattative, definite ancora «preliminari», tra studenti e governo di Hong Kong, per porre fine all’occupazione che ha bloccato il centro della metropoli, per strada rimangono moltissime persone intenzionate a proseguire nelle rivendicazioni. Siamo riusciti a raggiungere il pastore Howard Mellor, sovrintendente della Chiesa metodista internazionale di Hong Kong, che ha risposto alle nostre domande e ci ha aiutato a comprendere meglio le proteste di questi giorni nell’ex colonia britannica.
Pastore Mellor, innanzitutto ci aiuta a capire meglio le ragioni della piazza?
«La causa scatenante della rivolta è la riforma elettorale monca, ennesimo segnale di una democrazia che stenta a decollare, legata a doppio filo al governo cinese. Al momento il governatore viene scelto da circa 1.200 fra personalità di vari settori della vita pubblica di Hong Kong. Le richieste di questi anni vanno nella direzione di un suffragio universale per tutti i maggiorenni. Il governo ha sì concesso il suffragio per le prossime elezioni, in calendario nel 2017, ma ha limitato i candidati papabili ad una rosa di due o tre nomi al massimo, selezionati a monte sempre dal comitato esecutivo di 1.200 persone. Quindi la popolazione potrà finalmente votare, ma la sua non potrà essere una scelta libera, perché i candidati saranno sicuramente funzionali al comitato che le segnala. Tutto ciò è stato vissuto come l’ennesima prevaricazione e una limitazione della propria libertà personale, con il risultato di arrivare agli avvenimenti di questi giorni».
Si tratta di proteste condotte solo dagli studenti, come ci viene raccontato dai media?
«In realtà no. I giovani sono la maggioranza, ma è l’intera popolazione di Hong Kong ad avere un’età media non elevata. Per cui alcuni ormai non sono più studenti, ma giovani lavoratori, professionisti in vari settori, nati e cresciuti dopo i fatti di Tienanmen. Sono abituati a guardare l’occidente: il burocratico e silenziosamente repressivo protettorato cinese non viene più tollerato, e questo crea indubbiamente uno scollamento fra generazioni. Non vi sono leader veri e propri, sono presenti varie componenti – studentesca, politica, sindacale – le cui rivendicazioni coincidono. Approcciano volentieri stranieri, specie se giornalisti, per raccontare loro in inglese le ragioni della piazza».
L’attenzione della comunità internazionale è aumentata a seguito delle violente repressioni da parte della polizia. Come le giudica?
«L’utilizzo da parte delle forze di polizia di armi non convenzionali quali gas urticanti di varia natura, e le violente cariche contro manifestanti sostanzialmente inermi, hanno sconvolto tutti gli abitanti di Hong Kong e hanno rivelato l’incapacità del governo di sopportare critiche e divergenze. Anche perché dall’altra parte non vi è stata azione violenta, solo una lunga occupazione che sta forse esacerbando qualche animo, ma che non si può definire degenerata. Per nulla».
Quale ruolo sta avendo la Chiesa metodista in questa contesa? Vi sono state rivolte critiche ad esempio per l’appoggio fornito ai manifestanti.
«La Chiesa metodista di Hong Kong dal primo momento si è posta come luogo di riparo per i manifestanti vittime degli abusi delle forze dell’ordine. Come ha affermato il pastore Tin Yau Yuen, presidente delle comunità metodiste di Hong Kong, forniamo assistenza e cure mediche e spirituali non perché appoggiamo a scatola chiusa le proteste, ma perché crediamo con forza che sia necessiario un luogo di mediazione fra i cittadini e il governo. Le rivendicazioni della piazza, che vanno nella direzione di una maggiore democrazia e possibilità di partecipazione alla vita pubblica non possono lasciarci indifferenti; in più occasioni già in passato la Chiesa metodista aveva sottolineato che senza riforme prima o poi qualcuno si sarebbe ribellato, come infatti puntualmente è avvenuto. Il nostro è un Vangelo di servizio, per cui se ora veniamo chiamati a prestare soccorso a chi subisce abusi, noi faremo la nostra parte. Ma ciò non ci impedisce di sollecitare gli occupanti a superare questa fase di protesta, che inizia a creare qualche malumore fra gli abitanti di questo piccolo Paese. Abbiamo avuto varie occasioni per frequentare la piazza in questi giorni, per promuovere dibattiti e spingere i manifestanti a riflettere su una nuova fase».
Fase che può vedere la chiesa ancora protagonista?
«Si, con una serie di documenti noi ci stiamo candidando come terzo attore in scena, capace di interpretare ed elaborare le ragioni delle due parti, per giungere ad una sintesi, se possibile. Gli scontri violenti hanno innalzato un muro nella possibilità di dialogo, ed ora piano piano si sta cercando di superarlo. I manifestanti hanno sicuramente vinto, perché sono stati capaci di portare alla luce il malcontento. Ma ora devono essere in grado di compiere passi ulteriori, i più difficili, incanalando la protesta in una serie di rivendicazioni politiche. La nostra chiesa può porsi come mediatrice di queste diverse tensioni. Come ha detto il pastore Lo Lung Kwong di fronte ad una numerosissima folla nei giorni scorsi “è forse meglio per tutti avere un bicchiere mezzo pieno, che averlo vuoto del tutto”. Il processo che porta a maggiori diritti è lungo. Questi giorni segnano una nuova pagina, un nuovo passo in avanti che non potrà essere ignorato».