È stato ucciso uno di noi
26 agosto 2014
Come alla Kent State University nel 1970, il 9 agosto scorso «uno di noi» è stato ucciso a Ferguson.
Nel maggio del 1970, durante il mio ultimo anno di Università, sono rimasta scioccata e arrabbiata di fronte alla foto (ormai un’icona) di una studentessa inginocchiata che teneva fra le braccia il corpo senza vita di un giovane manifestante ucciso dalla Guardia Nazionale dell’Ohio nella Kent State University. I miei compagni e io eravamo stravolti vedendo che «uno di noi» poteva essere ucciso dal personale militare dal nostro paese in un campus universitario. Le reazioni di decine di migliaia di persone hanno avuto come seguito importanti cambiamenti politici.
Quarantaquattro anni dopo, gli onnipresenti mass media ci raccontano la storia di un giovane afroamericano, Michael Brown, colpito da sei proiettili sparati da un agente di polizia bianco, Darren Wilson. I media ci hanno mostrato scene relative alle giornate successive che mettevano i brividi. C’erano agenti della polizia municipale vestiti in divise militari, con le maschere anti-lacrimogeni, che arrivano su mezzi blindati e cominciano a sparare gas lacrimogeni e proiettili di gomma in mezzo alla folla di manifestanti. Quand’è che noi, popolo americano, abbiamo deciso che fosse appropriato trasformare la nostra polizia locale e regionale in unità militari? Quand’è che le amministrazioni locali e regionali hanno deciso di acquisire armi ed equipaggiamento necessari per agire in certi quartieri delle nostre città come un esercito in territorio nemico? La risposta si trova un bel po’ di tempo fa. Nel 1990, e di nuovo nel 1996, il Congresso ha approvato il trasferimento di armi e attrezzature militari alle varie forze di polizia.
Ma l’accesso da parte della polizia a questo materiale bellico rappresenta solo una parte del problema. C’è anche una generalizzata mentalità bellica, portata avanti dal lessico particolare di tanti politici americani. C’era stata la «Guerra contro la povertà» lanciata dal presidente Johnson, un’iniziativa lodevole con un nome inappropriato. Poi ci fu la «Guerra contro le droghe» lanciata dal presidente Nixon nel 1971 e poi invocata e proseguita per decenni dai suoi successori, una guerra che spesso, nel concreto, si svolgeva come una guerra contro singoli e gruppi marginalizzati.
Ormai da anni siamo abituati a vedere dei videoclip degli elicotteri della polizia di Los Angeles che volano a bassa quota sopra i quartieri neri, puntando i riflettori sulle case sottostanti, gridando ai residenti tramite altoparlante. In questi voli, gli agenti di polizia vivono la loro visione di potere, controllo e superiorità. Possiamo dire che la società civile abbia denunciato con efficacia tali attività e le ideologie che servono a giustificarle? Io penso di no. La Cnn ha citato dei cittadini di Ferguson che attestano che gli agenti di polizia locali (un totale di 53 agenti, dei quali 50 sono bianchi) sono da tempo infetti da uno stile macho e arrogante, sicuri di poter agire come vogliono nei confronti della popolazione.
Adesso la calma sembra d’essere tornata alle strade di Ferguson ma molte domande rimangano aperte. Verrà accusato l’agente che ha sparato sei volte a Michael Brown da una distanza di dieci metri? Se viene processato, sarà giudicato innocente, come la guardia giurata in Florida che ha ucciso il 17enne afroamericano Trayvon Martin nel 2012? Sarà possibile obbligare la polizia di Ferguson a cercare di cambiare la propria cultura organizzativa? Sara possibile iniziare un dibattito a livello nazionale sul ruolo, sulla missione e sulle regole per le unità di polizia delle città, delle contee e degli Stati? Alcune di queste domande sono state poste in una lettera da Amnesty International che termina con la frase: «Saremo grati di ricevere una copia della politica attuale e/o le linee guida che disciplinano l’uso di forza dal Dipartimento di Polizia di Ferguson».
Cinque giorni dopo la morte di Brown, il presidente Obama ha parlato ai cittadini di Ferguson: «Dobbiamo ricordare che siamo tutti membri di un’unica famiglia americana. Siamo uniti dai nostri valori condivisi come l’uguaglianza sotto la legge, il rispetto dell’ordine pubblica e il diretto alla manifestazione pacifica». Come avviene spesso, Obama esprime bene la mia visione ma oggi – con solo due anni che restano al suo mandato – una dichiarazione saggia e equilibrata è utile ma non sufficiente. Nel caso specifico di Ferguson, le autorità federali devono proseguire le loro indagini e si spera che l’agente Wilson venga portato in tribunale. A livello nazionale, però, spero che Obama faciliti un dibattito approfondito da parte dei cittadini comuni ed esponenti della società civile sul ruolo della polizia, sulla formazione degli agenti e sulla creazione di nuove linee guida sull’uso della forza. Come alla Kent State University nel 1970, il 9 agosto scorso «uno di noi» è stato ucciso a Ferguson. Questa morte dovrebbe dare inizio a cambiamenti positivi e profondi.