«Let’s make Holland great again». In un’altra epoca lo slogan dei populisti olandesi avrebbe fatto sorridere, oggi Geert Wilders affida a quelle sei parole la credibilità della sua promessa. Dopotutto, i successi dei presidenti americani hanno sempre ispirato i politici europei. Emulazioni simili hanno colorato tutta l’era Obama, a cominciare dal nostro paese, dove la vittoria del primo presidente nero degli Stati Uniti venne salutata dallo sventolio di piazza di un neonato «Partito Democratico». Era il 4 novembre 2008, e le pagine della Storia del mondo sembravano scorrere veloci. Erano soltanto nove anni fa, e l’Olanda sapeva ancora di essere un paese piccolo.
Cosa è successo nell’ultimo decennio? La domanda assilla gli analisti. In attesa di risposte soddisfacenti, chi ha a cuore il destino delle democrazie europee due cose le può fare subito: smetterla di usare l’espressione «i Trump d’Europa», e resistere alla tentazione dello stereotipo. Perché un’analisi populista dei populismi è il miglior regalo che si può fare a chi costruisce le proprie fortune elettorali su una visione manichea del mondo.
Recenti «trumpismi» a parte, Salvini, Wilders, Le Pen e Farage sono molto diversi tra loro, perché figli delle culture locali che si ripromettono di rilanciare. Prima prova: la cronologia. Il Partito per l'Indipendenza del Regno Unito (Ukip) esiste dal 1993, la Lega Nord e il Front National, anche se cambiati nel tempo, dal 1989 e dal 1972. Più recente il Partito per la Libertà (Pvv) olandese, che Geert Wilders fonda nel 2006 in polemica con la destra «tradizionale». In ogni caso, Trump viene dopo. Seconda prova, ben più importante: i contenuti. Islamofobia, retorica anti-immigrati e «sovranismo» sono senza dubbio punti condivisi. Ma se prescindiamo dalla comune ostilità nei confronti delle debolezze delle istituzioni europee, i valori e le mentalità cui i populisti d’Europa fanno appello in patria non sono assimilabili.
Nel dna della Lega Nord c’è ad esempio la prospettiva della secessione delle regioni più produttive: un’idea inconcepibile per Marie Le Pen, una nazionalista che fonda la sua retorica sull’unità di un «corpo nazionale» di cui la leader «avverte le lacerazioni sulla propria pelle». Un’empatia gentista nei confronti del proprio «popolo» è rivendicata anche da Wilders, il cui partito però non conosce la matrice «socialista» che da sempre informa il lepenismo, nato nel solco del Movimento Sociale Italiano (ce lo ricorda il simbolo: una fiamma tricolore). Non è un caso che prima di allearsi con Le Pen a Bruxelles (cosa accaduta solamente nel 2015) lo stesso Wilders, liberale in economia al pari di Farage, definiva «fasciste» le posizioni del Front National. Con il senno del poi, il look ossigenato e i tweet infantili dell’olandese hanno anticipato il trumpismo di almeno quindici anni, ma gli argomenti con cui il precursore ha sempre dipinto il proprio scontro di civiltà sono sconosciuti oltre Atlantico. Ad esempio, uno dei punti che qualificano la retorica anti-Islam di Wilders è la difesa delle donne e degli omosessuali. Una costruzione fuorviante? Certamente, ma tornando in Italia Salvini non la saprebbe nemmeno concepire.
E veniamo alle soventi sbandierate radici cristiane. Funzionali all’islamofobia, non tutti i populisti utilizzano allo stesso modo il fatto religioso. Si racconta che Marine Le Pen tenga nel suo ufficio il ritratto del cardinale Richelieu – cui stando al suo programma vorrebbe dedicare una nuova porta aerei – ma al di là dei dettagli folklorici l’ostilità ch’ella ostenta nei confronti di tutte le esteriorità religiose si rifà almeno in parte al laicismo repubblicano; un carattere nazionale, che fatta salva la religione vissuta come elemento identitario e l’occhio strizzato al mondo cattolico più conservatore, in Francia ritroviamo anche à gauche. Anche Wilders, nato a Venlo, nella provincia del sud cattolico, ogni tanto straparla di cristianesimo, ma la sua ideologia anti-islamica, elaborata negli anni giovanili trascorsi tra Israele e Medio Oriente, non si nutre di alcuna pratica religiosa. In questo senso, il parallelo con Trump potrebbe tornare, ma diversamente dagli evangelicals americani è molto difficile che i protestanti d’Olanda scorgano in lui un rappresentante ad interim. Di recente il Consiglio delle chiese olandesi ha invitato il Pvv a dibattere laicamente di giustizia sociale: né Wilders né un suo rappresentante hanno risposto, suscitando un’indignazione interconfessionale.
Dopo il raduno degli euroscettici a Coblenza, in Germania, si è parlato molto della “prima internazionale del populismo”. Un’espressione fuorviante, che fa il gioco di chi ha convocato quel consesso. Con le elezioni alle porte in Olanda, Francia, Germania e (forse) Italia, la decisione di mostrarsi uniti sotto il segno della Brexit e di Trump è senza dubbio strategica; ma l’Europa delle Nazioni non contempla alcuna piattaforma internazionale. Fisiologicamente non può: perché su chiusura e ripiegamento nazionale si costruisce solamente il conflitto, e perché le storie, le ambizioni e i retroterra su cui crescono e prosperano quei non-progetti politici sono e rimangono molto diversi tra loro. Paradossalmente, l’unico vero collante è l’ostilità nei confronti dell’Europa unita, di cui quasi tutti i leader euroscettici sono europarlamentari. Un fatto che ha tanto da dirci sulle fondamenta della nostra casa comune. Un problema cui sarebbe bene contrapporre un’«ecumenismo delle coscienze», un’«internazionale delle costituzioni». Un’Unione europea.