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La Corte Suprema indiana ha stabilito nei giorni scorsi che i candidati a cariche politiche non potranno più utilizzare questioni religiose, di casta, di comunità o di lingua per fare appello ai propri elettori. La corte ha affermato che la Costituzione dell’India sancisce le elezioni come un momento laico della vita democratica del paese, mentre il rapporto fra uomo e Dio è un momento dell’esistenza privata di un individuo. Si tratta di una svolta storica.

Una maggioranza di quattro giudici su sette ha stabilito che elezioni vinte facendo leva su temi religiosi o di casta potrebbero venire dunque invalidate, ai sensi delle nuove disposizioni. La minoranza sconfitta composta da tre giudici affermava invece che simili argomentazioni fossero a loro volta costituzionalmente protette dalla libertà di parola. Due visioni agli antipodi, specchio di una nazione in cui gli intrecci fra religione e politica, fra casta e libertà individuali sono profondi, problematici e difficili da districare.

Questioni etniche e religiose si fondono dando vita ad un prodotto che permea l’intero tessuto sociale.

I leader delle caste inferiori hanno conquistato ruoli di potere promettendo di porre fine a ingiustizie storiche; schiere di cittadini hanno invaso le strade del paese negli anni chiedendo il diritto di utilizzare le lingue indigene. Attivisti indù conservatori hanno regolarmente radunato il loro elettorato usando quale richiamo le accuse di illeciti e abusi subiti a causa delle comunità musulmane.

Non mancano dubbi sulla valutazione di politiche e azioni basate sull’identità e sui confini da stabilire. Difficile infatti eliminare dai discorsi pubblici riferimenti a sofferenze o riscatti legati ad esempio a questioni di casta: sono vari gli esempi in tal senso in India negli ultimi anni, in cui alcuni rappresentanti ad esempio della casta degli intoccabili hanno potuto avviare una notevole carriera politica, ovviamente citando questo percorso di sofferenza e sfide quale uno dei punti forti della propria appartenenza e militanza. Difficile immaginare ragionamenti censori in tal senso.

Sul fronte dell’uso religioso della politica la situazione è solo apparentemente più chiara: sarà vietato chiedere un voto per appartenenza religiosa, come vari esempi in passato hanno mostrato accadere, in particolare con riferimento all’induismo, considerata alla stregua di un lasciapassare per carriere di vertice.

Vari osservatori e fra questi Ram Puniyani, presidente di un centro studi su società e secolarismo a Mumbay, raggiunto dai microfoni di AsiaNews, stanno in queste ore sottolineando come anche le ultime campagne elettorali per l’elezione dell’attuale esecutivo «sono state caratterizzate da forti accenti confessionali, che polarizzano le comunità lungo linee religiose. Per questo la sentenza potrebbe essere un gran sollievo».

Esultano al momento le minoranze, che in teoria hanno potuto fino ad oggi contare su di una costituzione laica e pluralista, ma che nel concreto hanno visto le vicende seguire altri percorsi: una sentenza datata 1995 della stessa Corte Suprema, ad esempio, riconosceva l’hindutva, la forma di induismo prevalente nel paese, non più soltanto come una religione, ma come uno stile di vita. Una visione agli antipodi, smontata dall’ultimo pronunciamento.

Previsti all’orizzonte un gran fioccare di ricorsi e controricorsi. Lavoro extra per i giudici in attesa di testare la nuova sentenza. Le elezioni sono alle porte e vi sarà il primo importante banco di prova per una svolta che al momento pare lacunosa. Pensiamo per un istante al nostro paese e proviamo a traslare da noi una simile norma: ne vedremo certamente delle belle in una nazione che sulla carta è laica, ma che in realtà esprime una classe politica molto attenta agli spifferi d’oltre Tevere. Infine: certi temi sono prerogativa della religione o sono patrimonio di uno stato moderno? Non semplice tracciare confini e pronunciare dogmi in materia.

Immagine: By Al Jazeera English - Election rally, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17510566

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