Mercoledì 16 novembre si aprirà all’Aja la quindicesima assemblea degli Stati membri della Corte penale internazionale, istituita nel 2002 e mai del tutto in grado di convincere dell’importanza del suo ruolo. Tra i temi all’ordine del giorno si parlerà sicuramente della volontà espressa da quattro Paesi africani di abbandonare il Trattato di Roma e quindi la Cpi.
In particolare, il Sudafrica ha comunicato di voler abbandonare la Corte penale internazionale perché non la ritiene imparziale nei confronti dei Paesi africani, una decisione confermata dal ministro degli Esteri, che ha consegnato alle Nazioni Unite un documento nel quale si afferma che «l’impegno del Sudafrica per la risoluzione pacifica dei conflitti a volte è incompatibile con l’interpretazione data dalla Corte penale internazionale». La Cpi è indipendente dalle Nazioni Unite, e ha deciso per ora di non commentare la notizia prima di trattarla in seno all’assemblea. Secondo il giornalista Enrico Casale, della redazione di Rivista Africa, il bimestrale dei Padri Bianchi, «il Sudafrica sta portando avanti questo percorso per ragioni di opportunità».
Da dove bisogna ripartire per comprendere questa rottura?
«Dall’anno scorso, quando il presidente sudafricano, Jacob Zuma, si è trovato a dover far ripartire in fretta e furia il suo omologo sudanese, Omar Bashir, che si trovava in Sudafrica. Questo è stato il segno della rottura. Avendo aderito alla Corte penale internazionale, il Sudafrica avrebbe dovuto arrestare e consegnare Omar Bashir al tribunale, cosa che non è successa e che invece si è conclusa con il ritorno del presidente del Sudan a Khartoum. Questa decisione ha portato con sé notevoli polemiche, e ora il Sudafrica non vuole più trovarsi in situazioni di questo tipo e vuole avere le mani libere in tutto il continente».
L’intenzione di abbandonare la Corte penale internazionale non è stata espressa soltanto dal Sudafrica, ma sembra essere più diffusa. Possiamo parlare di una tendenza generalizzata?
«Direi di no. Non riguarda tutti i Paesi africani, ma soltanto alcuni. Per il momento, oltre al Sudafrica, c’è l’annuncio della volontà di abbandonare la Cpi da parte del Burundi, del Gambia e del Kenya. Tutti e tre i casi sono quelli di capi di Stato che potrebbero incorrere nelle maglie della giustizia internazionale: il Gambia perché Jammeh, l’attuale presidente, è un dittatore feroce, che sta opprimendo la sua popolazione e soprattutto l’opposizione. Non è un caso che i gambiani siano diventati il quarto gruppo nazionale di arrivi sulle nostre coste a Lampedusa, pur essendo un Paese piccolissimo, di un milione e ottocentomila abitanti. In Burundi invece c’è stata una profonda crisi legata alla ricandidatura del presidente Nkurunziza, una candidatura contestatissima che poi ha dato vita a forti manifestazioni e a una durissima repressione, e quindi ci potrebbe essere l’accusa nei suoi confronti di violazione dei diritti umani. La stessa cosa potrebbe valere per il capo di Stato kenyano, Uhuru Kenyatta e del suo premier, per le repressioni che ci sono state nel passato. Insomma, l’abbandono è legato al timore di una possibile indagine nei loro confronti».
Come si pone l’Unione Africana, che è l’assemblea che unisce i vari leader e i vari Paesi del continente, rispetto a questa volontà di abbandonare la Cpi da parte di quattro Paesi?
«Per rispondere dobbiamo fare un passo indietro: questi Paesi e questi presidenti che vogliono uscire dalla Corte penale internazionale, pur avendo ragioni profonde differenti, utilizzano la stessa scusa per prendere le distanze da questo tribunale, cioè il fatto che finora la corte ha perseguito principalmente leader africani: pensiamo a Omar Bashir, pensiamo a Jean-Pierre Bemba nella Repubblica Democratica del Congo e così via, quindi loro giustificano questa loro uscita con un supposto pregiudizio dei giudici della Cpi nei confronti dell’Africa. In parte può essere vero, ma nei fatti è il timore di essere perseguiti anch’essi che li fa tenere lontani, e nell’Unione africana serpeggia un po’ questo malcontento nei confronti del tribunale dell’Aja».
La popolazione di questi Paesi teme che in caso di uscita ci siano ricadute concrete per la loro sicurezza?
«Beh, la Corte dovrebbe essere un baluardo nei confronti delle violazioni dei diritti umani e nei confronti soprattutto dei responsabili di genocidi o tentati genocidi o dei massacri, quindi da parte di quella quota di popolazione che ne conosce l’esistenza questa Corte viene vista con favore. Tuttavia, c’è spesso uno scollamento nelle società africane tra le classi dirigenti e la popolazione, e in questo scollamento, in questo varco, si inserisce il cuneo della volontà da parte di questi presidenti di non rinnovare la loro fiducia alla corte dell’Aja e quindi di uscirne».
Se il processo si dovesse ulteriormente allargare la Corte penale internazionale cosa potrebbe fare? Potrebbe provare ad arginarlo in qualche modo?
«Onestamente non so. Credo che questo tribunale internazionale sia fondamentale, non solo per l’Africa, ma per tutti: dovrebbe essere un punto di riferimento per tutto il mondo e per tutte le violazioni di questo tipo, che non ci sono solo in Africa. Pensiamo alla Siria, alla tragedia di quella guerra civile che sta causando migliaia di vittime, soprattutto civili».