Quando lo scorso 30 giugno il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte si era insediato, aveva promesso l’avvio di una vera guerra alla droga. A poco più di tre mesi dall’inizio del suo mandato è possibile dire con certezza che non stava scherzando: da allora infatti sono morte oltre 3.300 persone, di cui un terzo sono state uccise dalla polizia durante dei raid e oltre 2.000 sono state attaccate da “assalitori non identificati”, secondo la versione della polizia nazionale delle Filippine. Tra i morti ci sono sospetti spacciatori e tossicodipendenti, oltre a persone scambiate per tali, e almeno due bambini, di quattro e cinque anni, uccisi da proiettili destinati ad altri. I cadaveri vengono rimossi frettolosamente dalle scene del crimine o scaricati in qualche fosso, spesso insieme a cartelli di cartone con la scritta “spacciatore”, una parola che è insieme condanna e stigma. Insieme a questo, Duterte sta spingendo perché nel Paese venga reintrodotta la pena di morte, una posizione che l’ha portato allo scontro con la chiesa cattolica.
Eppure la sua popolarità continua a crescere, e le sue dichiarazioni sulla necessità di “separarsi” dagli Stati Uniti, storico partner e protettore del Paese nell’ambito dei complicati equilibri del Pacifico, finiranno probabilmente per rafforzarlo ulteriormente sul fronte interno. Come si spiega questo consenso? Lo abbiamo chiesto a Fabio Polese, giornalista freelance esperto di sudest asiatico, da poco rientrato dalle Filippine.
Nell’ultimo mese le Filippine sono ricomparse sui giornali italiani principalmente per via di una narrazione legata al suo presidente, Rodrigo Duterte, visto sulla stampa italiana e occidentale come artefice di una svolta violenta nel Paese. Questa svolta è reale o va considerata una narrazione orientata?
«Diciamo che con l’entrata in carica di Rodrigo Duterte, il nuovo presidente, dal 30 giugno scorso, la lotta alla droga e alla criminalità è diventata davvero sempre più forte, portando con sé anche grandi forme di violenza. Tuttavia c’è da dire che questo fenomeno non è nuovo nelle Filippine: gli omicidi extragiudiziali, come adesso vengono chiamati dalla stampa di tutto il mondo, ci sono sempre stati, perché purtroppo molti interessi degli uomini d’affari di turno oppure di varie autorità locali hanno provocato uccisioni di varia natura. Il fatto però è che questa non è una novità nemmeno in seno allo Stato, perché avveniva sia con la dittatura di Ferdinando Marcos sia subito dopo».
Come mai la lotta alla droga è così centrale?
«Purtroppo le Filippine hanno un problema molto grosso con la droga: parliamo di circa tre milioni e mezzo di persone che sono tossicodipendenti. Proprio per questo la battaglia contro la droga che sta portando avanti Duterte è molto sentita dai filippini».
È questo il motivo per cui, nonostante la violenza, Duterte è così apprezzato?
«Diciamo anche per questo, ma non solo per questo, perché quando si parla di Duterte si parla solo ed esclusivamente di questa battaglia contro la droga e di questi omicidi extragiudiziali, ma in realtà c’è di più. Duterte sta facendo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale ed è proprio per questo che il popolo filippino sta al suo fianco.
Pochi giorni fa è uscita un’indagine per sapere se la popolazione filippina era soddisfatta dell’operato del presidente durante i primi cento giorni di mandato e il 76% dei votanti ha detto che era soddisfatto, insomma, parliamo di oltre tre quarti del popolo, e se andiamo a sud, nell’isola di Mindanao, dove Duterte ha governato la cittadina di Davao, il supporto è ancora più alto, arriviamo circa all’80%».
Il Mindanao è anche un luogo di secessionismo forte e caratterizzato da una polarizzazione rispetto al governo centrale, quindi forse la sua cognizione di questo tipo di conflitto può aiutare?
«Il discorso è complesso: da anni ci sono diverse guerriglie separatiste e purtroppo ultimamente alcuni di questi guerriglieri si sono spostati verso l’estremismo jihadista, hanno dei modi di operare uguali a quelli che il Daesh sta utilizzando in Siria e in Iraq. Duterte in questo momento sta cercando di portare avanti dei trattati di pace con queste guerriglie, negoziati già avviati dall’ex presidente Benigno Aquino, e allo stesso tempo ha rafforzato la battaglia contro questi gruppi che si rifanno al Daesh. Il principale è Abu Sayyaf, che, anche se in occidente se ne parla poco, sta facendo presa e ha lo stesso stile dell’Isis. Poco tempo fa ha rapito anche un italiano, che è rimasto più di sei mesi detenuto da questo gruppo radicale. Tra l’altro Duterte era anche l’obiettivo principale dell’attentato che c’è stato poco tempo fa proprio a Davao, dove sono morte 14 persone».
La questione della droga e del narcotraffico è il tratto distintivo del Paese in questa fase?
«La situazione è quella di un Paese molto complesso e in cui non si può parlare di Filippine soltanto per la battaglia di Duterte contro la droga. È un Paese che, nonostante abbia avuto una crescita economica molto forte negli ultimi anni ha una maggioranza di povertà molto grande e secondo come Paese più povero della zona solo dopo la Birmania, che viene da anni e anni di dittatura militare, fino al 2011, soprattutto dove fino all’entrata di Duterte era controllato da una oligarchia di poche famiglie».
Quando si parla di Filippine si pensa sempre al forte rapporto con il mondo cristiano cattolico. Come si è posizionata la chiesa cattolica nei confronti di Duterte?
«Bisogna partire da un dato: nelle Filippine quasi il 90% della popolazione è cristiana, oltre l’80% è cattolica, quindi il peso della religione è innegabile. La chiesa si è scontrata con Duterte perché più volte, anche in modo provocatorio, il presidente ha detto di volere un ritorno della pena di morte. A quel punto la chiesa cattolica, che aveva detto che sarebbe rimasta neutrale e silenziosa, ha deciso di schierarsi. Oltretutto è stata chiamata in causa direttamente da Duterte, costringendola in qualche modo a prendere posizione, arrivando a uno scontro inevitabile».