Continua il periodo di crisi politica in Palestina, un territorio segnato da difficoltà regionali aggravate da vertici politici ormai inadeguati.
Lunedì 3 ottobre la Corte Suprema palestinese aveva deciso che le prossime elezioni amministrative, previste originariamente per l’8 ottobre in tutta la Palestina, si sarebbero tenute soltanto in Cisgiordania e non nella Striscia di Gaza. Nella giornata di martedì 4 ottobre è poi arrivato un annuncio che era nell’aria da parte del governo palestinese: dopo aver consultato la Commissione elettorale palestinese, infatti, il primo ministro Rami Hamdallah ha annunciato il rinvio ufficiale delle elezioni a data da destinarsi, motivando la decisione con la volontà di trovare un accordo per tenerle in tutta la Palestina.
Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, è possibile che il voto amministrativo si tenga nel febbraio del 2017.
Il rinvio segna un nuovo momento difficile nel percorso che porta al voto in Palestina, e allontana un momento atteso da oltre dieci anni e promesso da anni dal governo palestinese. A settembre, quando le elezioni municipali erano state sospese una prima volta, la Corte Suprema aveva spiegato che i tribunali della Striscia di Gaza, controllata dal 2006 da Hamas, avevano escluso in modo illegittimo alcune liste elettorali di Fatah, il partito che dovrebbe governare su tutta la Palestina ma che esercita una qualche forma di autorità solo in Cisgiordania. La sospensione arriva come ultima conseguenza di uno scontro politico in atto ormai da un decennio tra Fatah e Hamas, che con alti e bassi hanno visto i loro rapporti diventare sempre più ostili.
Secondo Luigi Bisceglia, rappresentante del Vis (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo) in Palestina e presente da anni sul territorio, entrambe le decisioni – la limitazione e il rinvio – erano piuttosto prevedibili.
Quali speranze si erano costruite intorno a questo voto?
«I palestinesi speravano che per la prima volta dal 2006, cioè da quando Hamas aveva vinto le elezioni a livello nazionale, sia a Gaza che in Cisgiordania, ci potessero essere delle elezioni municipali. In particolare, tutti ci auguravamo che con questo voto si potessero unire i territori che compongono la Palestina. Il fatto però è che la situazione politica è molto complicata, perché Cisgiordania e Gaza continuano a essere completamente separate, sia politicamente sia territorialmente, e la Corte suprema, che peraltro siede a Ramallah, ha dichiarato che, essendoci nella striscia di Gaza dei tribunali che sono illegali, perché costituiti da Hamas, questi tribunali non avrebbero mai potuto convalidare le elezioni giudicandole trasparenti e corrette.
Questa è la motivazione di fondo per cui si pensava che o le elezioni potessero essere rimandate o nella migliore delle ipotesi si sarebbe votato solo in Cisgiordania.
Alla fine ieri l’Anp ha preso tempo e ha deciso di rinviare le elezioni municipali di quattro o sei mesi, ma comunque quando le elezioni si terranno saranno solo per le municipalità della Cisgiordania».
Si può leggere del calcolo politico in questa decisione? Si è voluto rimandare per evitare una vittoria di Hamas?
«Sì, sicuramente la maggior parte delle persone che conosco la pensa in questo modo. La gran parte della popolazione palestinese non pensa che l’Anp stia facendo gli interessi della popolazione, e quindi si immagina che ci possa essere un ulteriore voto di protesta, un po’ come c’è stato nel 2006. Diciamo che è molto probabile, e a questo bisogna aggiungere il fatto che il presidente Mahmoud Abbas vive sicuramente un periodo molto complesso, in cui si sta parlando di sue possibili dimissioni, del fatto che probabilmente non c’è un “delfino” o qualcuno che lo potrebbe sostituire. Prendere tempo potrebbe servire a rafforzare la sua posizione, oppure a trovare un successore, o ancora a far sì che Fatah possa riprendere un po’ di controllo e di elettori sul territorio, anche nella striscia di Gaza».
L’Anp continua a vivere in una costante crisi di leadership. Non aver saputo costruire un sistema in grado di stare in piedi in modo strutturale porta l’Autorità palestinese a non riuscire a gestire la fase calante di Mahmoud Abbas, che ha comunque 81 anni. Ma questa crisi del partito è anche una crisi di rappresentanza sul territorio? Ci si sente ancora parte del progetto politico rappresentato dall’Anp?
«Non penso proprio. L’Anp è nata nel 1994 e credo che in questi 22 anni nessuno abbia mai pensato che l’Anp potesse diventare in nuce lo Stato Palestinese. Non c’è stato quello che di solito si chiama un processo di state-building, per tanti motivi ma sicuramente anche per il fatto che gli accordi di pace non hanno funzionato e che non c’è mai stata una visione politica che permettesse di unificare il territorio e pensare quindi a governare, e non solo a tirare a campare».
L’assenza di un interlocutore politico quali conseguenze ha per chi lavora nel campo della cooperazione e dello sviluppo?
«Bisogna distinguere tra due livelli: sul piano locale non ci sono problemi, anche perché è fondamentale il rapporto tra le municipalità e le organizzazioni che di fatto reggono i servizi che l’Anp non riesce a derogare. A livello più “macro”, invece, i problemi sono molti, perché la burocrazia palestinese è se possibile peggiore di quella italiana, e inoltre abbiamo anche da tenere in considerazione il fronte israeliano. Non dimentichiamo che gli espatriati possono vivere e lavorare qui solo con visti di lavoro che sono rilasciati dalle autorità israeliane, dal momento che la Palestina non esiste come Stato in sede Onu, e quindi spesso è complesso anche ottenere i visti per nuovi colleghi o per rinnovare quelli delle persone che già lavorano qui. Quel che è certo è che in questa situazione di incertezza il supporto delle Ong e degli aiuti pubblici allo sviluppo è fondamentale per mantenere i servizi di base a favore della popolazione palestinese, e credo che questo venga riconosciuto da entrambe le parti, sia dall’Anp sia dalle autorità israeliane».
Anche perché dalla leadership palestinese non arriva nessuna prospettiva, quindi l’unica possibilità è lavorare sullo sviluppo dal basso.
«In realtà anche noi tiriamo a campare. Parlare di sviluppo è decisamente complesso e prematuro. Finché non ci sarà una situazione politica chiara sarà pressoché impossibile. Questo non significa che i progetti internazionali non vadano bene o non vengano gestiti bene i fondi disponibili, però la prospettiva che si ha è sempre e solo a breve termine».