Niente quorum in Ungheria. Il referendum che si è tenuto nel Paese domenica 2 ottobre a proposito delle quote di migranti da accogliere secondo il piano di redistribuzione europea è fallito.
L’affluenza si è fermata al 43%, e quindi l’esito del voto non è valido, ma tra i votanti il 98% ha deciso di seguire le indicazioni del governo, bocciando l'obbligo di accogliere le persone e respingendo l’idea di quote minime di profughi da accettare stabilite dall'Unione europea per alleggerire il carico di altri paesi comunitari, come Italia e Grecia.
Il quesito era piuttosto netto: «vuole che l'Unione europea possa prescrivere l'insediamento obbligatorio di cittadini non ungheresi anche senza il consenso del Parlamento ungherese?», ed era stato definito «di significato epocale» dal capo del governo, che aveva anche minacciato le proprie dimissioni in caso di sconfitta. Tuttavia, secondo Viktor Orbán si tratta in realtà di un successo netto e in linea con le previsioni. Il Primo ministro ungherese , in realtà, aveva chiesto una partecipazione e un voto plebiscitario per avere una preziosa carta da giocare al tavolo dell’Unione europea: già questa settimana, infatti Orbán intende avviare dei negoziati con l'Unione europea per ottenere che non sia obbligatorio per l'Ungheria accogliere persone che il governo ha definito «non desiderate». La risposta data dall’elettorato ungherese non è stata quella desiderata da Orbán, e questo renderà più difficile per lui e per il suo partito far valere le proprie posizioni in campo internazionale.
Secondo Stefano Lusa, direttore del programma informativo di Radio Capodistria, che ha seguito il voto da Budapest, la retorica era già cambiata. «Già da alcuni giorni – racconta Lusa – il governo e gli uomini di Orbán, la sua cerchia di collaboratori, dicevano che quello che contava e che conta non era raggiungere il quorum».
E quindi a cosa si puntava?
«La retorica del governo diceva che l’importante era sommergere tutto con una pioggia di “no”. Dire “no” alle quote obbligatorie, dire “no” ai 1.300 immigrati che dovrebbero arrivare in Ungheria col piano di redistribuzione. In effetti questa pioggia di “no” è arrivata e subito dopo il voto Orbán ha cantato vittoria, dicendo che è stato un risultato eccezionale e che la volontà popolare è chiarissima. Inoltre ha annunciato anche che ci sarà una modifica costituzionale per vietare l’ingresso e il ricollocamento degli stranieri nel caso in cui questo avvenga senza il consenso del parlamento ungherese. Non è un’idea originale di Orbán, se l’era inventata già Jobbik, il partito xenofobo di estrema destra che l’aveva già proposto alcuni mesi fa. Orbán ha voluto percorrere la strada del referendum ben sapendo quanto fosse alta la posta: il presidente si giocava sia la credibilità sul piano interno, sia soprattutto quella internazionale. Sembrava che l’affluenza dovesse essere alta e che le cose dovessero andare nel migliore dei modi per lui, ma negli ultimi giorni qualcosa si è rotto».
Che cosa non ha funzionato?
«Secondo gli analisti politici, alla sua campagna elettorale è mancato il crescendo finale, perché è stata sin da subito molto violenta. Il simbolo sono i manifesti che avevano inondato il Paese e che dicevano per esempio che dove ci sono gli immigrati le violenze sessuali aumentano, o che dalla Libia sono pronti a partire in milioni. Qualcosa non ha funzionato, ma soprattutto forse l’elettorato è stanco di questa retorica anti-immigrati».
Questo forte astensionismo ci dice che l’Ungheria di oggi è meno xenofoba di quella di ieri?
No, non è del tutto giusto. Il corpo elettorale ungherese va a votare in maniera per nulla massiccia, con un terzo di elettori che fisiologicamente non va alle urne, e questo rende strutturalmente difficile raggiungere il quorum del 50% più uno dei voti validi. I voti nulli non vengono calcolati nel computo delle schede, quindi allontanano il quorum, quindi è un’impresa abbastanza difficile. Orbán pensava di potercela fare, ma negli ultimi giorni ha capito che non sarebbe andata così ed è cambiata la sua retorica sui risultati».
Possiamo pensare che questo fallimento parziale del referendum disinneschi tentativi simili in Paesi come l’Austria, che potrebbe essere presto guidata dal partito xenofobo Fpö, o in Polonia?
«È presto per dirlo. Anzi, bisogna dire che l’Austria proprio ieri ha espresso solidarietà all’Ungheria e alla sua idea: il ministro degli Esteri austriaco ha affermato che non si possono imporre quote ai Paesi, quindi continua a esistere una posizione molto diffusa di vicinanza alle idee del presidente ungherese. Non dimentichiamo che Orbán e il suo partito, Fidesz, è anche membro del Partito Popolare Europeo, la più importante forza politica a livello continentale, e forse fa il gioco sporco anche per molti altri. Non so se la retorica xenofoba, o in modo più ampio tutta l’ondata nazionalista, calerà dopo questo referendum in Ungheria e anche nel resto dell’est Europa».
Il meccanismo di ricollocamento europeo non ha mai funzionato, quindi anche se il referendum fosse passato ci sarebbe stata qualche differenza concreta?
«Non si sa cosa potrà cambiare in realtà, proprio perché le quote europee non hanno mai funzionato e i piani di ricollocamento sono rimasti lettera morta. Quello che rimane come certezza è che tutto sommato la campagna elettorale di Orbán e la sua politica anti-migranti, partita da più di un anno, abbia fatto comunque dei danni più o meno permanenti. Qui in Ungheria il clima è di totale chiusura verso i migranti».
Anche a livello popolare?
«Sì, ed è abbastanza paradigmatica la storia che mi ha raccontato ieri una signora che abita vicino a un campo profughi a una decina di chilometri da Budapest. Mi raccontava che da questi campi sono passati prima i romeni, poi gli ex-jugoslavi, dopodiché sono cominciati ad arrivare gli africani e negli ultimi anni anche i migranti che arrivavano dalla Rotta Balcanica. Lei diceva di non aver mai avuto problemi, ma di aver voluto costruire un recinto più alto davanti al suo frutteto perché qualcuno veniva a rubare qualche frutto, ma che di reali esperienze negative non ne aveva mai avute. Anzi, raccontava anche che con qualcuno di loro ha continuato a intrattenere rapporti, ma che è andata a votare al referendum e ovviamente ha votato no, perché secondo lei questi migranti non si sarebbero potuti mai integrare in Ungheria perché non rispettavano le donne e avevano una cultura diversa. Insomma, un’esperienza positiva con i migranti, ma resa negativa dalla retorica portava avanti dal governo e della televisione di Stato, che ieri, nel giorno del referendum, ha continuato a bombardare l’opinione pubblica con immagini di migranti, di reati e di attentati. Quello che in qualche modo mi conforta è che tutto questo apparato di propaganda non è servito così tanto a Orbán per ottenere quello che voleva realmente dal referendum, visto che il quorum non è stato raggiunto».