Lunedì 12 settembre alle ore 18 è entrata in vigore una nuova tregua in Siria, per la prima volta estesa a tutto il Paese e non soltanto ad alcune aree. L’accordo, siglato sabato da Stati Uniti e Russia dopo dieci mesi di negoziati, dovrebbe favorire l’arrivo di aiuti umanitari nelle città siriane contese tra il regime di Bashar al-Assad e le formazioni ribelli, ma non comprende due tra le più importanti fazioni in campo: il gruppo Stato Islamico, o Daesh, e Jabhat Fateh al-Sham, prima conosciuta come Jabhat al-Nusra, l’emanazione di al-Qaeda in Siria.
Nonostante l’ottimismo delle parti che hanno annunciato l’accordo, è opinione piuttosto diffusa che la tregua non possa reggere fino a domenica, quando si dovrebbe aprire la seconda fase, orientata verso il futuro. In effetti, nelle prime ore di cessate il fuoco sono già state registrate diverse violazioni, sia da parte dell’esercito governativo, sia da parte dei ribelli. Secondo Lorenzo Marinone, caporedattore della rivista online East Journal per il Medio Oriente, «è molto difficile dire se si tratti di un buon accordo».
Come mai?
«Il motivo è piuttosto semplice: non sappiamo cosa ci sia materialmente scritto nell’accordo. Tutto ciò che sappiamo realmente proviene dalla conferenza stampa che il Segretario di Stato americano, John Kerry, e il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, hanno tenuto a Ginevra nella notte di sabato, mentre e il testo non è stato reso pubblico. Questo è un problema, perché ci potrebbe essere un’intesa molto più forte e variegata di quanto possiamo immaginare e che però in questa fase è difficile da intuire».
Da quanto si sa finora quali sono gli elementi principali di questa intesa?
«In gran parte non sono punti innovativi: esiste un cessate il fuoco, stavolta esteso a tutta la Siria, e c’è una clausola per cui il regime di Assad non deve più bombardare le postazioni e le città nemiche e quindi è costretto a lasciare a terra la sua aviazione. Inoltre dev’essere garantito il recapito di aiuti umanitari su tutto il territorio della Siria, specialmente ad Aleppo, e ci sono delle clausole specifiche proprio per questa città, che rappresenta uno dei fronti più caldi, a proposito dei punti in cui gli aiuti possono e devono passare».
Ci sono però dei cambiamenti importanti rispetto al passato?
«In effetti c’è una clausola più interessante delle altre, che è quella per cui tutte le fazioni che noi chiamiamo normalmente “ribelli” e che stanno combattendo, specificamente ad Aleppo, si devono fisicamente allontanare dal gruppo di Jabhat al-Nusra, o “Fronte al-Nusra”, un gruppo che è stato legato ad al-Qaeda fino a un mese fa e poi ha cambiato nome compiendo una scissione formale. In realtà il gruppo rimane nell’area jihadista, questo allontanamento non è altro che un’operazione cosmetica. Questa clausola serve a permettere agli Stati Uniti e alla Russia di sedersi allo stesso tavolo e a tracciare una propria mappa del conflitto definendo dove stanno i “buoni” e i “cattivi”, stabilendo quindi dove si possa considerare legittimo bombardare e combattere, nello specifico al-Nusra e il resto della mondo jihadista, e dove invece ci siano quei gruppi che in teoria non è possibile bombardare e combattere, che sono quelli che noi, in Europa e in Occidente in generale, tendiamo a definire per comodità come “ribelli moderati”, per mettere tutti quanti sotto lo stesso cappello e distinguerli da quelli che sono invece in orbita jihadista».
Non è un’operazione impossibile?
«Diciamo che è complicatissima da tanti punti di vista. Innanzitutto, al-Nusra è la formazione tra i ribelli più corposa, meglio equipaggiata, più esperta e più abile nel combattimento. Di fatto è fondamentale soprattutto in un teatro come Aleppo: se si staccassero gli altri gruppi da al-Nusra praticamente sarebbero condannati a perdere la città di Aleppo e consegnarla al regime o ai jihadisti, e quindi avrebbero molto meno potere, perderebbero quello per cui hanno combattuto in questi anni. Se le cose stanno così è facile immaginare che tutta quella parte di ribelli non sia disponibile ad accettare l’accordo.
Tuttavia, il fatto che ci sia stata questa intesa tra Stati Uniti e Russia ha messo di fatto i più piccoli gruppi ribelli con le spalle al muro, e quindi quello che è successo dopo una primissima fase in cui tutti hanno detto che non avrebbero rispettato l’accordo è che alla spicciolata uno dopo l’altro questi gruppi hanno detto di sì e in linea di massima lo rispetteranno».
Quindi questo accordo può reggere?
«Non credo. La situazione era già caotica di suo, e il cessate il fuoco sta facendo vedere che continua ad esserlo e che in realtà non ha sortito alcun effetto, non è stato uno spartiacque netto, e quindi è molto molto probabile che non reggerà. Anzi, il cessate il fuoco, che è iniziato formalmente verso le 18 di ieri, mostrava già questa mattina le prime crepe, tanto che sono già state riportate delle violazioni da entrambe le fazioni, sia ad opera del regime che da parte di diversi gruppi ribelli.
Sono piccoli episodi, ma sono comunque violazioni del cessate il fuoco, che in linea di principio dovrebbe significare che non si spara più.
In realtà era notevole il fatto che anche Kerry durante la conferenza stampa in cui annunciava questo accordo con la Russia non abbia detto “non ci deve essere assolutamente nessun episodio di violenza”. L’espressione che ha usato è “noi ci aspettiamo un’autentica riduzione della violenza”. Questo vuol dire che i limiti del cessate il fuoco sono lasciati all’interpretazione di Stati Uniti e Russia, ma questo è un ulteriore punto debole dell’accordo, perché nel momento in cui una delle parti volesse farlo saltare avrebbe una grande facilità nel trovare un motivo, individuare in un fatto l’evento che fa saltare la tregua, quindi è un accordo estremamente fragile».
Se si dovesse arrivare a domenica con una tregua sostanzialmente rispettata e quindi si dovesse entrare nella seconda fase, quella della definizione del futuro della Siria, bisognerebbe valutare le posizioni delle varie forze straniere presenti sul territorio. In particolare preoccupa il ruolo della Turchia: potrebbe accettare di lasciare spazio agli altri o vorrebbe far sentire la propria voce al tavolo delle trattative?
«Che la Turchia voglia entrare nel gioco siriano l’abbiamo visto sin dai primissimi mesi del 2011, ma ha cambiato il modo di farlo: il 24 agosto, poche settimane fa, ha invaso la Siria, si è conquistata un lembo di terra e sta spingendo per cooperare almeno formalmente con gli Stati Uniti, o meglio per ricevere il via libera dagli Stati Uniti per avanzare ulteriormente. Sicuramente il fatto di aver messo fisicamente un piede in Siria garantisce alla Turchia di sedersi al tavolo negoziale con più forza di quanta non ne avesse prima. Fino allo scorso agosto, infatti, appoggiava più o meno ufficialmente una parte dei ribelli con finanziamenti e armi e con un supporto di tipo politico. Ora, invece, può verificarsi un paradosso: la Turchia, infatti, non è andata in Siria semplicemente con i suoi soldati e il suo esercito, ma usa dei combattenti locali, che fanno parte di una serie numerosa di sigle e gruppi che non sono attivi solo nelle zone vicine alla Turchia, ma anche in altre parti della Siria, come per esempio Aleppo, dove combattono fianco a fianco con al-Nusra e le varie formazioni jihadiste. Anche in questo caso ci possono essere diversi motivi per questa alleanza: possono essere ideologicamente vicini, oppure possono farlo per una questione di tattica, perché altrimenti sarebbero troppo deboli e scomparirebbero, però magari non condividono l’ideologia di al-Qaeda. Tutto questo però non è importante, perché nel momento in cui su scala nazionale questi gruppi non si dovessero allontanare da al-Nusra ma l’accordo entrasse nella sua seconda fase cosa potrebbe succedere? Tutti questi gruppi finirebbero nella metà di quelli contro cui è legittimo combattere, non solo dalla parte della Russia ma anche dalla parte degli Stati Uniti, quindi si arriverebbe al paradosso che un alleato degli Stati Uniti com’è formalmente la Turchia appoggia dei gruppi che gli Stati Uniti e la Russia ritengono bisognerebbe combattere in Siria, e quindi si arriverebbe a un ulteriore paradosso che finirebbe per bloccare, o complicare ulteriormente, la situazione».