Una crisi spirituale sta attraversando le nostre chiese? Manca il ricambio generazionale o c'è un arricchimento dato dall'arrivo di fratelli e sorelle di altri Paesi? Un cambiamento profondo è certamente in atto e per questo la Tavola e l'Opcemi, l'Opera per le chiese metodiste in Italia, hanno commissionato al Centro studi confronti e migrazioni una ricerca sociologica che fornisca un quadro aggiornato sulla composizione delle comunità valdesi e metodiste. L'indagine è appena iniziata, come conferma Alessia Passarelli, sociologa e membro (insieme a Claudio Paravati, Paolo Naso, Aline Pons, Marta Maffia e Silvia Facchinetti) del gruppo responsabile dello studio in questione. «Si parte dall'assunto che siamo di fronte a uno slittamento denominazionale e a un'appartenenza fluida che un tempo non era caratteristico delle chiese protestanti – spiega Alessia Passarelli – vogliamo capire innanzitutto quanti siamo, chi è membro di chiesa e che cosa significa oggi rispetto a un tempo, come e se cambia il ruolo dei pastori, e in che modo l'immigrazione influisce sulla composizione e sull'impegno delle nostre comunità». «Organizzeremo focus group e colloqui con pastori e pastore, interviste a testimoni privilegiati e un paio di domeniche durante l'anno andremo a verificare a livello nazionale quanti vanno al culto; in alcune comunità ci fermeremo anche per un periodo più lungo per approfondire la conoscenza della vita ecclesiastica e i rapporti con la società in cui sono inserite», continua Passarelli. «Contiamo di presentare al prossimo Sinodo una prima fotografia delle chiese».
Un'indagine che è un'occasione per ragionare sul periodo di transizione in corso e tentare di risponde ad alcune domande che hanno anche attraversato la discussione sinodale, in cui è emerso come sia probabilmente cambiato il senso di appartenenza alla chiesa, e anche il modo di essere credenti; in molti casi manca un ricambio generazionale e si fa fatica ad assumere incarichi ecclesiastici. C'è uno scollamento fra il quotidiano e l'espressione della fede? Ne abbiamo parlato, oltre che con Alessia Passarelli, con Marcello Salvaggio, pastore a Torre Pellice, e con Giuseppina Bagnato, pastora della chiesa valdese di Romagna e Marche.
In questo quadro come si collocano le chiese delle Valli valdesi? Continua ad esserci uno “zoccolo duro” di testimonianza della fede che non cambia rispetto al passato?
Marcello Salvaggio: «Viviamo una fase di transizione preoccupante ma al contempo stimolante: sono i periodi di cambiamento che ci permettono di capire la nostra identità. Questo è un territorio che si spopola e registra una grave perdita di risorse, umane ed economiche. I numeri dicono che c'è una progressiva diminuzione di membri di chiesa: a Torre Pellice, per esempio, su 1400 persone soltanto un nucleo ristretto si prende la responsabilità di impegnarsi attivamente, mentre più del cinquanta per cento non vive l'essere credente come una responsabilità a partecipare e a contribuire ma come una semplice adesione di principio. Qui alle Valli le chiese risentono forse di una struttura “antica”, che non risponde più alle esigenze dell'oggi: c'è l'unione femminile e quella giovanile, la corale, gruppi che resistono ma che non hanno di fatto un ricambio nelle nuove generazioni. Capita quindi che molti pastori, soprattutto quelli che operano in località periferiche, vivano un sentimento di sfiducia e pessimismo. Nonostante questo le Valli hanno ancora una grandissima potenzialità: quello “zoccolo duro” c'è ancora e la nostra presenza sul territorio è forte, grazie anche alla diaconia e alla sua capacità di rispondere alle esigenze concrete delle persone, un servizio che dovremmo valorizzare per aiutare la chiesa a ripensare se stessa, alla luce delle sfide di oggi».
Si riscontra una crisi di spiritualità nelle comunità della diaspora?
Giuseppina Bagnato: «Nelle chiese del centro-nord in cui ho servito ho notato negli ultimi anni un aumento di fratelli e sorelle che arrivano da contesti di immigrazione e che hanno portato elementi di spiritualità nuovi, con un conseguente rinnovamento liturgico e un generale arricchimento della vita ecclesiastica. Non credo quindi si possa parlare di crisi spirituale, è cambiato invece il contesto sociale, che ci obbliga a porci domande diverse rispetto al passato e a rimettere in questione vecchi modelli. Per esempio un tempo tutto era demandato al pastore o al consiglio di chiesa, mentre i laici non si assumevano responsabilità: oggi questo non è più possibile, è un modello di stampo parrocchiale che non ci appartiene, come ha ben testimoniato la chiesa di Villar Pellice, in cui la comunità si è attivata senza problemi durante l'anno di vacanza pastorale».
M. S.: «L'esperimento di Villar Pellice ci dice che le chiese possono approfittare dell'assenza del pastore per attivare nuove risorse ma dobbiamo comunque ammettere che anche in questo caso non è cambiato nulla in termini di numero di membri e contribuzione. Alle Valli il pastore ha sempre avuto un ruolo carismatico a prescindere, che ora però mi pare si stia un po' perdendo: sono gli anziani che ancora aspettano con piacere le visite pastorali, per chiacchierare della vita della comunità locale, mentre chi ha dei problemi non si rivolge tanto al pastore quanto allo sportello diaconale dove, se ha bisogno, riceve anche un aiuto concreto».
G. B.: «Bisogna considerare che in Italia siamo di fronte a una popolazione fortemente invecchiata, perché si fanno pochi figli e spesso in età già avanzata. E' anche cambiato il modo di vivere la fede: un tempo andavano tutti al culto, nonni, genitori e figli insieme, cosa che ora non accade più. Se manca il rapporto di testimonianza della fede in famiglia non serve a nulla parcheggiare i ragazzi in chiesa come ad un'attività sportiva e poi pretendere che alla fine dell'iter catechetico ci sia un'adesione automatica alla vita ecclesiastica. Se guardo alla mia esperienza questo aspetto di delega dell'educazione religiosa incide moltissimo sulla disaffezione dei più giovani nei confronti della chiesa».
Alessia Passarelli: «In realtà più che dei ragazzi notiamo l'assenza della fascia dei quaranta-cinquantenni. Con la Federazione delle chiese evangeliche in Italia stiamo portando avanti una ricerca sui giovani nelle nostre comunità: tutti quelli che hanno risposto ai questionari sono impegnati e entusiasti, quindi forse sono meno numerosi di un tempo ma di certo partecipano attivamente».
G. B.: «Una spiegazione di questo rinnovato entusiasmo dei più giovani forse si può ritrovare nel fatto che le chiese protestanti oggi sono l'unico luogo in cui si può sviluppare un dialogo di gruppo e uno spirito critico, dopo che le diverse riforme della scuola in Italia hanno eroso gli spazi per un dialogo di gruppo in classe. La libertà che si incontra nella chiesa probabilmente cattura i ragazzi e le ragazze, che la vivono come uno spazio inedito e una novità assoluta, perché non ne fanno esperienza durante il loro percorso formativo. Inoltre è un luogo dove l'intercultura è vissuta come positiva, a differenza di quello che si percepisce nella società».
Nelle chiese si incontra il diverso da sé e si fa pratica di uguaglianza fra maschi e femmine. Non è poco.
M. S.: «Non dimentichiamo che la Fgei in primis, ma anche l'animazione giovanile alle Valli e Agape hanno di fatto portato alla formazione dei “quadri” delle nostre chiese, segno che c'è stato un processo di rinnovamento nella chiesa e che si può guardare al futuro con ottimismo. Le nostre chiese sono capaci di far crescere persone con un'identità forte. Al rispetto delle differenze di genere che si respira da noi aggiungo che le nostre comunità sono molto più femminili: alcuni ruoli sono ancora in mano agli uomini ma non c'è dubbio che l'entusiasmo arrivi dalle donne, che propongono e trascinano, mentre i maschi o si sottraggono o stanno nell'ombra, almeno alle Valli. Ciò non toglie che anche noi dobbiamo fare attenzione al cyberbullismo, problema emergente nella società da cui non dobbiamo sentirci immuni soltanto perché sappiamo usare il linguaggio inclusivo».